Sono passati cinque giorni dalla morte di John Kennedy e la stampa bussa alla porta di Jackie per chiedere il (reso)conto. Una relazione particolareggiata dei fatti di Dallas. Sigaretta dopo sigaretta, Jackie ristabilirà la verità e stabilirà la sua storia attraverso le domande di Theodore H. White, giornalista politico di “Life”. Una favola che il suo interlocutore redige e Jackie rilegge, rettifica, manipola, perfeziona per dire al mondo di Camelot, dell’arme, la dama e il cavaliere che fecero l’impresa e la Storia fino al declino della loro buona stella.
Tra la verità e la favola c’è Jackie. Quella di Pablo Larraín, isolata in una giornata d’autunno, dopo l’assassinio del consorte e prima del ritiro dalla vita pubblica. Un intervallo spazio temporale che l’autore cileno ricostruisce in un film storico-vestimentario, cercando l’identità personale dietro quella fittizia, lungo i corridoi e le stanze della Casa Bianca, sotto la seta e i tailleurs di crêpe, di fronte ai manichini inarticolati vestiti da Chanel. E nella silhouette di un manichino, che la protagonista osserva nelle vetrine di una boutique, batte il cuore di un ritratto inflessibile che si contrappone a quello rotondo di Neruda. Diversi nel segno le due opere procedono tuttavia vigorosamente tra Storia e finzione, dominati da una sorta di insolenza che soggiace al cinema dell’autore. Da una parte la celebrazione della creazione artistica, della sua aspirazione al sublime e dei suoi compromessi con la realtà (Neruda), dall’altra il gesto espressivo che sviluppa uno stile personale e costruisce un’immagine pubblica, una condotta verbale e non verbale fatta di gesti, acconciature, abiti, gioielli e attitudini (Jackie).
Alla maniera di Neruda, il carattere finzionale di Jackie è stabilito dalle prime sequenze, l’incontro tra Jackie e il giornalista di “Life” è ripartito in piani dislocati in décor differenti (la confessione col prete al cimitero, il tour alla Casa Bianca con CBS News, etc), che indicano l’impossibilità della ricostruzione fondata sulla sola memoria. L’incertezza è il fondamento stesso di Jackie. È quanto serve di base a una straordinaria creazione di finzione che Larraín consacra alla relazione intercorrente tra corpo e abito. Perché Jackie seppe esprimere come nessun’altra i messaggi inibiti dalla parola, trasformando la Casa Bianca in una maison di stile e di glamour, appropriandosi dei media dell’epoca, radio e televisione, intuendo l’importanza di un abito nella figurazione della propria identità e del proprio ruolo sociale, veicolando la politica del consorte e soffiando un vento nuovo sulla residenza presidenziale.
Un re allo sbando di P. Brosens
Festival del Cinema di Venezia 2016 – sezione orizzonti
Che Peter Brosens e Jessica Woodworth fossero capaci di un cinema decisamente eccentrico rispetto ai grandi baricentri della produzione contemporanea, che si parli i prodotti più commerciali o di quelli d’autore destinati ai mercati festivalieri, lo avevamo capito già quando, a Venezia, vedemmo La quinta stagione: a metà tra il fiabesco surrealismo letterario di Shane Jones e la pittura di Pieter Bruegel.
Qui non ci sono né il primo né la seconda, ma c’è ancora quello spirito anarchico e irriverente con il quale i due autori raccontano storie strampalate in grado, però, di parlare del mondo e dell’essere umano.
Un Re allo sbando (brutto titolo italiano scelto per King of the Belgians, scelto probabilmente per attirare il pubblico della commedia più tradizionale), riesce infatti a raccontare una storia dove – a partire da uno spunto nemmeno troppo fanta-politico, quello di una Vallonia che si dichiara indipendente dal Belgio fiammingo – un sovrano deve letteralmente scappare da una capitale straniera che non vorrebbe lasciarlo andare (motivi d’immagine e diplomatici) e affrontare una comica e assurda fuga attraverso i Balcani; una storia che, appunto, parla del nostro mondo, di un’Europa che ha perso il senso di sé stessa ed è lacerata dalle spinte nazionaliste, e di un uomo, un Re stanco e spento, disattivato dalle formalità del protocollo, che ritrova sé stesso e la sua libertà personale.
Nati documentaristi, Brosens e Woodworth scelgono per questo film di finzione la strada del mockumentary (tutto è raccontato attraverso l’occhio della videocamera del regista inglese che la Regina aveva assunto per un documentario istituzionale sul Re, Nicolas III) e della commedia strampalata, spolverando il tutto con un grottesco vagamente demenziale, trovando così una curiosa ma giusta distanza per divertire (prima di tutto, ma senza negarsi un pizzico di amarezza a fin di bene) e raccontare scena e retroscena dei suoi personaggi: oltre al Re – un bravissimo Peter Van den Begin, maschera tutt’altro che monocorde – ci sono il suo ligio addetto al protocollo, una giovane e agguerrita addetta stampa, un valletto personale e ovviamente il regista del documentario.
Tutti, alle prese con l’imprevedibile e con una fuga che li riporterà a contatto diretto con il vero cuore dell’Europa e del suo popolo (e anche del loro, di cuore), perderanno progressivamente maschere e abiti, avvicinandosi in maniera quasi pericolosa a un disvelamento completo di sé, per poi (sapere di dover) reindossare tutto ma con nuova consapevolezza.
Più di tutti, ovviamente il Re. L’unico, non a caso, a metterli letteralmente nudo per fare il bagno nel mezzo del Mediterraneo che stanno tentando di attraversare in maniera improvvisata e rocambolesca.
Perché è il protagonista del film, certo. Perché è lui il personaggio cui era destinato il più evidente e necessario arco di trasformazione. Perché era lui a dover riprendere in mano il controllo della sua vita: delle sue parole, come raccontato dal ricorrente e costante tentativo di scrivere un discorso che riunisca nuovamente il suo Stato e il suo popolo.
Ma anche perché, semplicemente, è il Re. L’uomo simbolo di un’istituzione considerata sorpassata e antimoderna, l’uomo che, proverbialmente, è solo al comando (ma privo oramai di potere e ruolo) e la cui solitudine esistenziale è stata esplorata così spesso da cinema e letteratura.
Si è perso il Re, viva il Re.
Ozzy – cucciolo coraggioso di A. Rodriguez
Ozzy, un simpatico beagle, svolge una vita serena e idilliaca fino al giorrno in cui i suoi padroni, devono improvvisamente partire per il Giappone senza la possibilità di portarlo con loro. Profondamente addolorati, i Martins dovranno cercare una sistemazione temporanea per Ozzy e la scelta ricade su un canile extra lusso. Ma quello che all’apparenza sembra un paradiso di amore e coccole, si rivelerà ben presto una terribile prigione per cani, gestita da un proprietario malvagio. Ozzy dovrà trovare la forza di resistere e il coraggio di scappare grazie anche all’aiuto dei suoi nuovi amici a 4 zampe.
Moonlight di B. Jenkins
Oscar 2017 – miglior film – miglior sceneggiatura non originale –
miglior attore non protagonista
Da quando, a partire dall’inizio del nuovo millennio, il cinema afroamericano ha cominciato a presidiare in pianta stabile la programmazione del circuito ufficiale, la preoccupazione dei suoi esponenti più importanti e celebrati è stata quella di preservarne il vitalismo che in larga parte coincideva con l’orgoglio di razza e i richiami alle proprie origini presenti nei lavori di registi come Spike Lee, John Singleton e Mario Van Peebles, che, seppur con risultati tra loro non paragonabili, possiamo oggi considerare i precursori di questo movimento. Tutt’altro che scontate, le preoccupazioni del regista di “Fai la cosa giusta” si riferivano soprattutto al rischio di sudditanza derivata dalla volontà di farsi accettare dall’establishment come in parte è avvenuto con il fiorire di un filone più commerciale perfettamente sovrapponibile alla produzioni di genere (soprattutto commedie) hollywoodiane. La Festa del cinema di Roma prova a dare un contributo alla discussione animandola con la presenza di due titoli come “The Birth of the Nation” di Nate Parker e soprattutto di “Moonlight” diretto da Barry Jenkins, destinati ad animare il dibattito. E se il film di Parker, di cui parliamo in altra sede, si inserisce nella maniera più classica nel filone dei titoli che rileggono la storia per denunciare gli orrori della schiavitù, quello di Jenkins ha le carte in regola per figurare tra i titoli capaci di segnare uno scarto rispetto a ciò che l’ha preceduto.
La trama, divisa in tre atti, ognuno dei quali corrispondenti a una diversa fase della vita del protagonista (infanzia, adolescenza ed età adulta), ci propone uno degli scenari più tipici rappresentato dal ghetto nero (di Miami) in cui, tra violenza, emarginazione e degrado sociale, vive il giovane Chiron, che trova conforto nell’amicizia con il boss del quartiere e la sua compagna, presso i quali si rifugia per supplire all’assenza della madre tossicodipendente e per trovare un’alternativa al bullismo dei compagni di scuola.
Dalla tradizione non si discosta neanche l’iconografia della fauna sociale regolata da una legge della strada uguale a quella che faceva da sfondo alle storie di “Boys on the Hood” e “Training Days”, solo per citare due dei lungometraggi più emblematici, né quella urbanistica, dominata dal degrado e dalla decadente fatiscenza del quartiere natale. Ad essere diversi, però, sono la sensibilità del regista e il suo punto di vista sulle vite dei personaggi. Jenkins, infatti, non rinuncia ai temi della droga, della violenza e della discriminazione sociale, ma li filtra attraverso un intimismo che serve alla storia per mettere in scena una formazione esistenziale segnata dalla diversità sessuale, che Chiron scoprirà innamorandosi dell’amico del cuore. In questa maniera il modello del gangsta movie viene svuotato degli stilemi tipici del genere per essere riempito da una poetica rivolta a trasfigurare i turbamenti dell’anima e le ragioni del cuore; con la dicotomia tra realtà e apparenza enfatizzata dalla trasformazione fisica e caratteriale di Chiron, uscito dal carcere trasformato nel corpo e nello spirito per difendersi dal peso delle antiche fragilità.
Tratto da “Moonlight Black Boys Look Blue”, opera teatrale di Tarell Alvin McCraney, il film di Jenkins tradisce la sua matrice con immagini che non si limitano ad accompagnare la narrazione ma che si incaricano di inventarla, quando la vicenda riflette sulla condizione umana del protagonista e sulle molte rinascite (familiare, sessuale, sociale) della sua esistenza, ogni volta associate alla presenza dell’acqua, elemento psicanalitico destinato a fungere da fonte battesimale nella sequenza del bagno con Juan, che suggella la responsabilità genitoriale assunta dall’uomo nei confronti del suo piccolo amico..