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PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 23-11 AL 29-11
Martedì 24 novembre ore 21 – MISS JULIE di L. Ullman (EUROPA CINEMAS 1.0) – ingresso € 5 – versione inglese sottotitolata in italiano
Mercoledì 25 novembre ore 21 – BLACK MASS di S. Cooper – cineforum
Venerdì 27 novembre ore 21 – BLACK MASS di S. Cooper – ingresso unico € 5
Domenica 29 novembre ore 16 – SNOOPY & FRIENDS – IL FILM DEI PEANUTS – ingresso
unico € 4
Domenica 29 novembre ore 18 e 20.30 – MUSTANG di Deniz Gamze Ergüven
MISS JULIE
Una notte di mezza estate. Questo il tempo in cui si compie la storia di seduzione e potere tra Miss Julie (Jessica Chastain) e il maggiordomo John (Colin Farrell).
In un clima di baldoria e festività, grazie ai vincoli sociali allentati, la figlia del barone e il cameriere di casa si ritrovano da soli nella grande residenza di campagna di fine ottocento e mettono in atto una battaglia che non è solo di classe, ma soprattutto di dominio tra i sessi; un gioco attraente e pericoloso che, poco a poco, si trasforma in tormento e tragedia per i due protagonisti.
Liv Ullmann porta sullo schermo l’adattamento del capolavoro teatrale del drammaturgo August Strindberg, per anni censurato e proibito dalle autorità svedesi perché ritenuto osceno e moralmente sovversivo. Nel farlo rispetta i canoni della tragedia e incentra lo svolgimento della vicenda nella grande cucina, dove i due protagonisti si fronteggiano a forza di monologhi, come avviene su un palco teatrale.
È l’amore che non è amore, che quasi sempre si lega a emozioni contrastanti di repulsione e disprezzo per l’altro che si lascia dominare da noi.
Colin Farrel e Jessica Chastain sono eccezionali nell’esprimere, sostenuti da dialoghi sensibili e sottili, i risvolti psicologici di questa infatuazione. Nel farlo vengono accompagnati da una scelta indovinata del livello visivo: luci e cromie intense che valorizzano i volti dei personaggi e sottolineano l’intensità delle emozioni.
Sotto più aspetti Miss Julie strizza l’occhiolino a Barry Lindon. Se entrambe le opere sono forti di una preesistente sceneggiatura ben strutturata, la fotografia si articola spesso sulla ricostruzione di famosi quadri sette-ottocenteschi, salterà subito all’occhio come la scena finale di Miss Julie sia una trasposizione per il grande schermo dell’Ophelia di John Everett Millais.
BLACK MASS
Un gangster movie. Non c’è festival senza un boss che uccida infami, costruisca alleanze, provi a conquistare la città e il quartiere in cui è nato, infine finisca malinconicamente in fuga, tradito, fallito, incarcerato, ucciso. A volte anche tutte queste cose insieme, non necessariamente in quest’ordine. Questa volta tocca a Johnny Depp, che nella materia è un maestro: infiltrato in Donnie Brasco, Dillinger il superbandito in Nemico pubblico, trafficante di droga in Blow e ora, in Black Mass-L’ultimo gangster, piccolo calibro dalle grandi ambizioni, un irlandese che comincia come ras del quartiere e finisce con l’ambizione di condizionare il conflitto in Irlanda negli anni ’70. Tutto questo è un film che a Venezia 72 passa fuori concorso, accendendo il Lido con la presenza di quello che potremmo definire l’ultimo divo.
Il cast è riuscitissimo, dalla partecipazione folgorante di Sarsgaard a un Depp per cui Scott Cooper sceglie una maschera alla Marlon Brando e bravissimo nelle scene madri (nella cena dal suo contatto nell’FBI è perfetto), passando per un guasconissimo Joel Edgerton e una Dakota Johnson bella e dolente.
Depp, dopo anni di personaggi gigioni e maschere sempre più grottesche – dai Pirati dei Caraibi non vediamo più la sua vera faccia, sempre più imbolsita, ma trucchi pesanti a renderlo spesso più buffo che altro, torna a una prova d’attore vera e propria, controllata e di alto livello in più punti. E nonostante il ritardo, la birra nella mano destra, il girovita imbarazzante e una certa strafottenza, sembra in forma anche fuori dal set. “Trasformarmi è la mia ossessione” ha confessato, per poi malinconicamente ammettere che “all’inizio della mia carriera mi hanno costruito per finire sui poster delle camere delle ragazzine”. Una maledizione ancora attuale se è vero che molte donne, dai 14 ai 40 anni, hanno addirittura passato la notte a ridosso del red carpet, con copertine, tende e generi di conforto vari, per vederlo per pochi minuti in occasione della proiezione di gala.
SNOOPY & FRIENDS – IL FILM DEI PEANUTS
In occasione del 65° anniversario dall’esordio della striscia a fumetti e 15 anni dopo la scomparsa del loro creatore, i Peanuts tornano al cinema con una grande produzione dei Blue Sky Studios (L’Era Glaciale, Rio), un lungometraggio animato diretto da Steve Martino (Ortone e il Mondo dei Chi, L’Era Glaciale 4 – Continenti alla Deriva).
Dopo 4 film cinematografici e 45 special televisivi, il ritorno di Charlie Brown e dei suoi amici è di sicuro qualcosa che i fan attendevano da tempo, ma ai tempi l’annuncio portò con sé un grande dubbio: il nuovo progetto infatti sarebbe stato animato in computer grafica. Paura, incertezza, panico.
Com’era possibile pensare di tradurre il tratto stilizzato di Charles Schulz e un fumetto così piatto in qualcosa di tridimensionale? L’aspetto visivo è stata la principale preoccupazione, svanita rapidamente circa un anno e mezzo fa, appena è stato mostrato il primo teaser trailer: Charlie Brown e Snoopy si presentavano con modelli in CG dettagliati e coerenti con la controparte cartacea, grazie anche all’utilizzo di elementi bidimensionali per le espressioni del volto e linee cinetiche di movimento prese direttamente dal fumetto.
La distribuzione italiana ha optato per intitolarlo Snoopy & Friends, relegando al sottotitolo “Il film dei Peanuts”; non è una scelta che appare così assurda, visto che il simpatico cane è di certo il personaggio più conosciuto e amato, quindi in grado di portare il pubblico in sala, ma non solo: Snoopy infatti è la spalla comica del protagonista, che in più di un’occasione riesce a rubargli la scena, anche nei panni di alcuni dei suoi numerosi alter ego; in particolare la lotta contro il Barone Rosso occupa una fetta importante della pellicola, con diverse sequenze oniriche che vedono il cane a bordo del suo aereo da guerra per sconfiggere il suo avversario e trarre in salvo la sua bella. È forse l’unico elemento del film a risultare eccessivo, presente per più tempo del necessario, quando alcune di quelle scene si sarebbero potute sfruttare per vedere Snoopy nel mondo reale, dove è molto più efficace e riesce realmente a rendere speciale ogni scena in cui appare. Pensando allo studio d’animazione che ha prodotto il film, questa side-story ci ricorda per certi versi le avventure di Scrat, che potrebbe effettivamente avere maggiore appeal sugli spettatori più giovani.
MUSTANG
Deniz Gamze Ergüven non perde tempo e quasi immediatamente mostra l’insensatezza e la stupida violenza a cui l’uomo può arrivare, se condizionato dalle assurde costrizioni dettategli da una tradizione ingiudicabile. Una tradizione che può mostrarsi chiusura ermetica, costrizione, prigione e morte di una generazione.
Lale, Nur, Ece, Selma, Sonay sono bellissime e sono sorelle. Dopo la perdita dei genitori vivono con la nonna e lo zio Erol. Sono molto unite e cercano di vivere la loro adolescenza e infanzia come farebbero tutte le ragazze della loro età, nel modo più spensierato possibile. L’asfissiante presenza di una tradizione che va rispettata, di una retrograda visione della realtà, le obbliga a rimanere in casa per non incorrere in situazioni equivoche che potrebbero infangare il nome della loro famiglia, impedendo così loro quel matrimonio che appare sempre più come obbligo e sempre meno come scelta.
Mustang è un’opera completa. Incentrata sul grave problema sociale dei matrimoni combinati e del ruolo sottomesso della donna, il film mostra questo pesante disagio che lega e mina il libero arbitrio di chi spesso non può difendersi e che spesso non tiene conto della giovane età di queste spose, per la maggior parte bambine. Lo stile con cui la regista Erguven racconta è quasi distaccato, vero e incredibilmente semplice ma mai banale. Il film, ambientato e girato in Turchia, è stato scritto da due donne: la regista stessa e la sceneggiatrice francese Alice Winocour. Un punto di vista femminile potente e incredibilmente attraente che permea tutta l’opera. Mustang non è soltanto un’opera attraente esteticamente, eccezionalmente ben scritta e diretta, è narrazione pura di uno spaccato di vita negata, che opprime molte giovani donne dei nostri tempi. Nonostante la sua regista e l’intero cast siano turchi, sarà la Francia a presentare Mustang come candidato alla prossima edizione degli Oscar, essendo la produzione per l’appunto francese. Con la speranza che possa portare sempre più sguardi non indifferenti su questa innaturale tradizione – costrizione.
EUROPA CINEMAS 1.0
Con questo nuovo progetto – denominato Europa Cinemas 1.0 – il Cinema Italia apre le porte al cinema europeo di qualità. Le proiezioni cercheranno di portare in sala produzioni di paesi europei poco conosciuti ma di indubbio valore. Si comincia con Miss Julie di Liv Ullman, presentato al Toronto International Film Festival, che propone un tris d’assi di attori dell’indubbio spessore quali Jessica Chastain, Colin Farrell e Samantha Morton.
PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 16-11 AL 22-11
Lunedì 16 novembre ore 20.30 – SUBURRA di S. Sollima (CINEMA DI CLASSE) – ingresso € 5
Mercoledì 18 novembre ore 21 – SUBURRA di S. Sollima – cineforum
Venerdì 20 novembre ore 21 – ALASKA di C. Cupellini
Sabato 21 novembre ore 18.30 – SNOOPY & FRIENDS – IL FILM DEI PEANUTS – ingresso unico € 5
Sabato 21 novembre ore 21 – ALASKA di C. Cupellini
Domenica 22 novembre ore 16 – SNOOPY & FRIENDS – IL FILM DEI PEANUTS – ingresso unico € 5
Domenica 22 novembre ore 18 e 21 (€ 5) – ALASKA di C. Cupellini
SUBURRA
Formidabile la regia di Stefano Sollima, che si inventa una Roma cupa, lurida, laida, perlopiù notturna, invasa dal fango, flagellata dalla pioggia.
Quel che segue è l’esplicazione di quanto di tenebroso e sordido viene evocato dal (peraltro bellissimo) titolo. Tutto un magma-magna e uno spara-spara in cui confluiscono e sono sodali e collusi: 1) il Vaticano; 2) la politica della destra governativa; 3) la criminalità burina e feroce derivata dal neofascismo degli anni Settanta; 4) i piccoli boss (il capetto di Ostia) e gli zingari cravattari ansiosi di spartirsi la grande torta. Che nel film è una gigantesca operazione urbanistica tesa a metter su una simil Las Vegas sul litorale di Ostia. Ci mettono dentro i capitali parecchi clan e sottoclan criminali coordinati da un super padrino chiamato Samurai, un fascio passato dall’idea, dagli ideali e dalle lotte politiche degli anni Settanta al più pratico e redditizio affarismo. A renderla possibile ci penserà il corrotto deputato di riferimento del centrodestra tessendo la maggioranza necessaria a far passare in parlamento una legge ad hoc. Come no, c’è dentro l’eco precisa di Romanzo criminale con la sua ascesa nera dalle periferie al centro, ma qui siamo ancora di più al rispolvero di un modello narrativo più antico del nostro cinema, quello di film come Le mani sulla città, A ciascuno il suo, Cadaveri eccellenti, con i loro intrecci – in quei casi in Sicilia e a Napoli – di politica e mafia. Suburra frulla quelle suggestioni potenti a tutto il noir e crime nostro degli anni Duemila, da Gomorra (l’esecuzione nel centro estetico dei due bravi del ramo ostiense riprende la scena iniziale del film di Garrone) a ovviamente Romanzo criminale, e ambisce a essere il ritratto perfetto e definitivo di Roma cloaca massima di ogni nequizia contemporanea. La narrazione è scandita da un countdown che ci indica man mano i giorni che mancano all’apocalisse. Al netto del suo ideologismo, Suburra è magnifico, lurido e buio, un’oscurità che è anche dell’anima e che ricorda nei momenti più alti L’infernale Quinlan di Orson Welles.
ALASKA
Alaska è un melodramma a tinte forti, l’odissea amorosa di due protagonisti osteggiati nella loro ricerca di serenità. Un’opera potente dove il riscatto dalla propria condizione diventa dramma ineludibile.
Claudio Cupellini firma Alaska, una coproduzione francese che sente tanto l’influenza del cinema d’oltralpe, infilando una storia di amore e disperazione che non teme affronti, difetti, lungaggini, e che va spedita verso il proprio epicentro narrativo senza curarsi di nulla. Portandosi dietro la forza di una sceneggiatura volteggiante ma precisa, dove ogni spirale narrativa assume la sua giusta intensità all’interno della parabola tragico-affettiva dei suoi protagonisti. Già con Una vita tranquilla Cupellini aveva dimostrato di saper maneggiare con cura il materiale umano di esistenze osteggiate nel loro percorso di vita e ricerca di quiete. Qui il regista veneto punta ancora più in alto, affrontando sfide ancora maggiori, e realizzando ancora una volta un film a cavallo di due Paesi (Francia e Italia), in un interessante scambio di culture che trapela anche da quel mix nel parlato dei due protagonisti (Nadine prova a parlare in italiano, Fausto le risponde in francese, ma quando sono incazzati entrambi utilizzano la loro lingua madre).
Un melodramma amoroso e sentimentale di straordinaria portata dove Cupellini si prende il tempo necessario per entrare nei dettagli della sua storia, raccontando vizi, tic, paure e virtù dei suoi Fausto e Nadine, per poterne poi spiegare azioni e reazioni in una catena di eventi estremamente drammatica ma geometricamente sequenziale. Fausto e Nadine sono giovani privi del senso della prospettiva, e puntano tutte le loro esistenze verso il loro riscatto da una solitudine e da una ‘povertà’ congenite. E in questa dinamica, l’elemento dell’esser spinti dallo stesso obiettivo sarà al tempo stesso il punto di forza e debolezza del loro rapporto. Elio Germano spicca per la tenuta e coerenza emotiva durante tutto l’arco del film, ma anche Astrid Berges-Frisbey non è da meno, incarnazione piena di una cupa e dolorosa bellezza che ricorda vagamente la Marion Cotillard in Un sapore di ruggine e ossa di Audiard.
Un paragone non casuale visto che, a margine di qualche linea narrativa che andava forse un po’ sfoltita garantendo all’opera una maggiore incisività, nei suoi pregi migliori Alaska ricorda da vicino la profondità e la compiutezza del miglior cinema francese, un cinema dove il dramma (in fondo semplice) di due vite ai margini appaiate dal caso o dal destino, può assumere vertici emozionali davvero sorprendenti. Non c’è facile pietismo o un dramma ricattatorio, ma solo la storia (verosimile) di Una vita tranquilla che appare in certi casi un miraggio impossibile da raggiungere.
SNOOPY & FRIENDS – IL FILM DEI PEANUTS
In occasione del 65° anniversario dall’esordio della striscia a fumetti e 15 anni dopo la scomparsa del loro creatore, i Peanuts tornano al cinema con una grande produzione dei Blue Sky Studios (L’Era Glaciale, Rio), un lungometraggio animato diretto da Steve Martino (Ortone e il Mondo dei Chi, L’Era Glaciale 4 – Continenti alla Deriva).
Dopo 4 film cinematografici e 45 special televisivi, il ritorno di Charlie Brown e dei suoi amici è di sicuro qualcosa che i fan attendevano da tempo, ma ai tempi l’annuncio portò con sé un grande dubbio: il nuovo progetto infatti sarebbe stato animato in computer grafica. Paura, incertezza, panico.
Com’era possibile pensare di tradurre il tratto stilizzato di Charles Schulz e un fumetto così piatto in qualcosa di tridimensionale? L’aspetto visivo è stata la principale preoccupazione, svanita rapidamente circa un anno e mezzo fa, appena è stato mostrato il primo teaser trailer: Charlie Brown e Snoopy si presentavano con modelli in CG dettagliati e coerenti con la controparte cartacea, grazie anche all’utilizzo di elementi bidimensionali per le espressioni del volto e linee cinetiche di movimento prese direttamente dal fumetto.
La distribuzione italiana ha optato per intitolarlo Snoopy & Friends, relegando al sottotitolo “Il film dei Peanuts”; non è una scelta che appare così assurda, visto che il simpatico cane è di certo il personaggio più conosciuto e amato, quindi in grado di portare il pubblico in sala, ma non solo: Snoopy infatti è la spalla comica del protagonista, che in più di un’occasione riesce a rubargli la scena, anche nei panni di alcuni dei suoi numerosi alter ego; in particolare la lotta contro il Barone Rosso occupa una fetta importante della pellicola, con diverse sequenze oniriche che vedono il cane a bordo del suo aereo da guerra per sconfiggere il suo avversario e trarre in salvo la sua bella. È forse l’unico elemento del film a risultare eccessivo, presente per più tempo del necessario, quando alcune di quelle scene si sarebbero potute sfruttare per vedere Snoopy nel mondo reale, dove è molto più efficace e riesce realmente a rendere speciale ogni scena in cui appare. Pensando allo studio d’animazione che ha prodotto il film, questa side-story ci ricorda per certi versi le avventure di Scrat, che potrebbe effettivamente avere maggiore appeal sugli spettatori più giovani.
PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 11-11 AL 16-11
Mercoledì 11 novembre ore 21 – LA VITA E’ FACILE AD OCCHI CHIUSI di D. Trueba – cineforum
Venerdì 13 novembre ore 21 – LA VITA E’ FACILE AD OCCHI CHIUSI di D. Trueba – ingresso € 5
Sabato 14 novembre ore 18.30 – HOTEL TRANSYLVANIA 2 di G. Tartakovsky – ingresso € 5
Sabato 14 novembre ore 21 – SUBURRA di S. Sollima
Domenica 15 novembre ore 16 – HOTEL TRANSYLVANIA 2 di G. Tartakovsky – ingresso € 5
Domenica 15 novembre ore 18 e 21 – SUBURRA di S. Sollima
Lunedì 16 novembre ore 20.30 – SUBURRA
LA VITA E’ FACILE AD OCCHI CHIUSI
Se l’apertura del lungometraggio diretto dal cineasta iberico David Trueba – autore tra l’altro, de La buena vida (1996) – mostra immagini di repertorio di John Lennon e dei Beatles il motivo è semplicissimo: il titolo La vita è facile ad occhi chiusi (2013) altro non è derivato che dal verso “Living is easy with the eyes closed” che colui che ci ha regalato Imagine e Happy Xmas incluse nella sua Stawberry fields forever.
Perché quella raccontata nel corso della oltre ora e quaranta di visione è una vicenda ispirata a quanto realmente accaduto a Juan Carrión, professore d’inglese che, con l’obiettivo di chiedere al futuro compagno di Yoko Ono di correggere i testi trascritti nel proprio quaderno per poterli poi insegnare ai suoi alunni, pare lo abbia incontrato sul set di Come ho vinto la guerra (1967) di Richard Lester.
Un incontro dopo cui sembrerebbe che i quattro “scarafaggi del beat” (e di seguito tutte le band musicali) abbiano cominciato a riportare i testi delle proprie canzoni nel retro degli LP e che Trueba riporta sullo schermo ponendolo nei panni del protagonista Antonio: professore che, appunto, nella Spagna del 1966 intraprende un lungo viaggio in macchina verso il Sud, in quanto ha appreso che Lennon si trova in Almeria (Andalusia) per interpretare la pellicola sopra citata.
Lungo viaggio durante il quale offre un passaggio al sedicenne scappato di casa Juanjo e alla giovane Belén, anche lei apparentemente fuggita da qualcosa; personaggi destinati ad affiancare l’uomo della sua missione ed a stringere con lui una amicizia il cui progressivo sviluppo non finisce altro che per essere posto al centro di una storia di formazione on the road volta a ribadire, tra l’altro, che ci sono canzoni che ti salvano la vita.
Lo sfondo di La vita è facile ad occhi chiusi è la Spagna degli anni Sessanta: contradditoria, grigia, in piena dittatura. La generazione più anziana è ancora condizionata dalla guerra civile e quella più giovane desidera libertà morale e sociale. Questo contrasto è evidente soprattutto nel sud del paese, come la poverissima provincia di Almeria (Andalusia), dove le prime ondate di turismo di massa e le grandi produzioni cinematografiche straniere si scontrano con ritardi e limitazioni. In questo contesto, l’arrivo di John Lennon per partecipare alle riprese del film Come ho vinto la guerra di Richard Lester sottolinea lo stato d’animo di una parte della popolazione giovanile: è un simbolo di libertà, di nuova morale, di progresso”. È sufficiente questa dichiarazione del regista David Trueba per esprimere un giudizio nei confronti di una dolceamara commedia on the road i cui tre protagonisti rappresentano altrettanti forme di ribellione all’ordine costituito, testimoniando che i veri eroi sociali sono sempre persone comuni capaci di superare aspettative e limiti. Perché la vita è come un cane: se sente che hai paura, ti viene a mordere.
HOTEL TRANSYLVANIA 2
Per il Conte Dracula non ci sono dubbi: suo nipote si può chiamare solo Denisovic.
Perché? Perché deve essere slavo e soprattutto deve essere un vampiro, in modo tale che sua figlia Mavis, innamoratasi dello yankee Johnny nel primo Hotel Transylvania del 2012, possa rimanere vicino a lui (mai dimenticare che il Conte è vedovo) e non lasciarlo solo soletto a gestire il resort per mostri che tanto ci aveva divertito nel primo film.
Dracula dunque come Spencer Tracy di Indovina Chi Viene a Cena (1967) e Robert De Niro di Ti Presento i Miei (2000): un padre apprensivo più ipocrita di quello che il finale del bellissimo primo episodio del 2012 ci aveva fatto pensare quando sembrava che il mondo dei mostri e quello degli umani potessero andare anche d’accordo.
E invece ecco in Hotel Transylvania 2 uscire fuori tutte le idiosincrasie del capo famiglia vampiro, il quale non vuole proprio credere che il nipotino Dennni… pardon Denisovic possa anche non essere un vampiro.
In attesa che gli escano i canini (ma usciranno mai? E se fosse solo un tristissimo umano?), il nonno cercherà di svezzare il piccolo Denisovic alla mostruosità con l’aiuto riluttante dei mostri amici Wayne (il Lupo Mannaro stressato che non può fare l’istruttore di tennis perché subisce troppo il fascino della pallina), Frankenstein, Griffin (L’Uomo Invisibile che prova a convincere gli altri di avere una fidanzata invisibile; in italiano gli dà la voce il Mino Caprio di Peter Griffin), Murray (la Mummia giocherellona) e Blobby (il Blob gelatinoso in grado di inglobare tutto e tutti al suo interno molliccio).
Bellissima l’apparizione finale di un parente del Conte Dracula ancora più old school di lui per quanto riguarda il rapporto con gli umani. Insomma… il sequel è molto divertente per come gioca con la tradizione horror (senza poter utilizzare troppo l’iconografia ufficiale dei Mostri Classici visto che sono proprietà Universal; questa produzione è Sony/Warner) inserendo queste dinamiche dentro una commedia familiare sincera, scritta molto bene e con più di una bella scena d’azione. Il regista Genndy Tartakosky conferma ancora una volta di essere un grande talento.
SUBURRA
Formidabile la regia di Stefano Sollima, che si inventa una Roma cupa, lurida, laida, perlopiù notturna, invasa dal fango, flagellata dalla pioggia.
Quel che segue è l’esplicazione di quanto di tenebroso e sordido viene evocato dal (peraltro bellissimo) titolo. Tutto un magma-magna e uno spara-spara in cui confluiscono e sono sodali e collusi: 1) il Vaticano; 2) la politica della destra governativa; 3) la criminalità burina e feroce derivata dal neofascismo degli anni Settanta; 4) i piccoli boss (il capetto di Ostia) e gli zingari cravattari ansiosi di spartirsi la grande torta. Che nel film è una gigantesca operazione urbanistica tesa a metter su una simil Las Vegas sul litorale di Ostia. Ci mettono dentro i capitali parecchi clan e sottoclan criminali coordinati da un super padrino chiamato Samurai, un fascio passato dall’idea, dagli ideali e dalle lotte politiche degli anni Settanta al più pratico e redditizio affarismo. A renderla possibile ci penserà il corrotto deputato di riferimento del centrodestra tessendo la maggioranza necessaria a far passare in parlamento una legge ad hoc. Come no, c’è dentro l’eco precisa di Romanzo criminale con la sua ascesa nera dalle periferie al centro, ma qui siamo ancora di più al rispolvero di un modello narrativo più antico del nostro cinema, quello di film come Le mani sulla città, A ciascuno il suo, Cadaveri eccellenti, con i loro intrecci – in quei casi in Sicilia e a Napoli – di politica e mafia. Suburra frulla quelle suggestioni potenti a tutto il noir e crime nostro degli anni Duemila, da Gomorra (l’esecuzione nel centro estetico dei due bravi del ramo ostiense riprende la scena iniziale del film di Garrone) a ovviamente Romanzo criminale, e ambisce a essere il ritratto perfetto e definitivo di Roma cloaca massima di ogni nequizia contemporanea. La narrazione è scandita da un countdown che ci indica man mano i giorni che mancano all’apocalisse. Al netto del suo ideologismo, Suburra è magnifico, lurido e buio, un’oscurità che è anche dell’anima e che ricorda nei momenti più alti L’infernale Quinlan di Orson Welles.
CINEMA DI CLASSE al Cinema Italia
Le scuole superiori di Dolo, il gruppo Faive ed il Cinema Italia propongono
CINEMA DI CLASSE.
PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 04-11 AL 08-11
Mercoledì 04 novembre ore 21 – EVEREST di B. Kormakur – cineforum
Giovedì 05 novembre ore 21 – EVEREST di B. Kormakur – ingresso € 5
Sabato 07 ottobre ore 18.30 – MINIONS di P. Coffin – ingresso unico € 5
Sabato 07 ottobre ore 21 – IO CHE AMO SOLO TE di M. Ponti
Domenica 08 novembre ore 16 – MINIONS di P. Coffin – ingresso unico € 5
Domenica 08 novembre ore 18 e 20.30 (€ 4) – IO CHE AMO SOLO TE di M. Ponti
EVEREST
Everest racconta la storia vera di uomini che scalano la montagna più alta del mondo. C’è chi lo fa da tempo, chi lo fa per sport, chi ha pagato profumatamente per permettersi questa esperienza, tutti però sono accomunati dalla domanda che li attanaglia e a cui non sanno dare risposta “perché farlo”.
Rob Hall e Scott Fisher sono due scalatori professionisti che negli anni ‘90 iniziano qualcosa di impensabile fino a poco prima: organizzano delle arrampicate fino alla vetta più alta del mondo, l’Everest appunto, per clienti di ogni sorta. Si fanno la guerra, sono divisi da stili di scalata e approcci alla vita totalmente diversi ma stavolta dovranno collaborare vista la forte affluenza di clienti e viste le condizioni climatiche. Ciò che segue è una delle avventure più entusiasmanti, drammatiche, potenti, risolutive dell’uomo del secolo appena trascorso.
Nel film l’uomo non è l’unico protagonista: la montagna, l’imprevedibilità del clima, gli impedimenti fisici, Madre Natura insomma, dominano le scene. Il regista sa sfruttare questo dialogo tra l’uomo e la Terra e ci fa entrare e uscire dal nostro stato di tensione con la macchina da presa in modo egregio. Scene di dettagli su piedi che si aggrappano insicuri sulle scale ghiacciate sopra una gola di 30 metri vengono alternate a vedute aeree della montagna, si va dal micro al macro, si racconta un respiro diverso da quello umano, si dà spazio nel dialogo visivo anche alla risposta della Natura.
“It’s not the altitude but the attitude” questa la frase che pronuncia Scott Fisher (Jake Gyllenhall) e che ci fa riflettere su ciò che siamo e vogliamo essere in questo film: la pellicola accompagna le nostre sensazioni senza mai abbandonare il punto di vista maestoso della natura e ci dimostra come l’uomo possa pensare di essere in grado di fare qualsiasi cosa. Purtroppo non è sempre così.
MINIONS
I Minions sono una sintesi del meglio della comicità surreale della storia del cinema, da Buster Keaton a Harold Lloyd, Monsieur Hulot e Jerry Lewis, virati in acido e con quella cattiveria necessaria, appunto, a ogni icona della commedia.
È la formula perfetta per far divertire grandi e piccini, tutti diversamente sadici nel vedere i “buoni” presi a calci nel sedere dal folletto maligno di turno. E come spesso accade, la spalla finisce per far andare in secondo piano il suo maestro. Sarà difficile per Gru reggere il confronto, personaggio ormai normalizzato e imborghesito, per quanto piacevolmente.
Gli omini gialli, al grido di “Banana!” conquistano il mondo, nel vero senso della parola, almeno è quanto ci racconta il loro passato. Politicamente scorretti per DNA, i Minions vengono calati nella situazione ideale, i meravigliosi anni Sessanta, dalla East alla West Coast, fino alla meravigliosa Swinging London, dove possono esprimere il meglio del loro potenziale psichedelico. Meno convenzionali della Dreamworks, alternativamente originali alla Pixar, i creativi della Illumination guardano al cinema con un amorevole occhio al passato integrandolo in mondi ideali, in cui ci si può prendere beffe allegramente della Lehman Brothers e della regina d’Inghilterra, perfetta compagnia da pub e grande barzellettiera. Una formula perfetta per gli adulti, che ridono di gusto, mentre i bambini godono delle devastazioni che questi giullari pasticcioni provocano al loro passaggio.
IO CHE AMO SOLO TE
In “Io che amo solo te” le vicende ruotano intorno a Damiano e Chiara, una giovane coppia che ha deciso di sposarsi a Polignano a Mare, in Puglia. I due giovani affronteranno ostacoli e tentazioni. Al centro della commedia così come in “Mamma Mia” non c’è solo la giovane coppia ma anche i loro genitori.
” Io che amo solo te” è il titolo della nuova commedia romantica di Marco Ponti. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Luca Bianchini, scritto nel 2013, e non può non rimandare a “io che amo solo te”, canzone del 1962 di Sergio Endrigo. Infatti la commedia, come hanno dichiarato gli attori protagonisti, riporta indietro nel tempo, agli anni ’60, ma non ha nulla da invidiare alle commedie americane.
Nel cast ci sono attori noti al pubblico italiano come: Laura Chiatti, Riccardo Scamarcio, Michele Placido, Maria Pia Calzone, Luciana Littizzetto, Pino Abbrescia. Al centro della commedia c’è la tematica dell’autenticità, ognuno riesce a essere se stesso e a prendere le proprie decisioni, indipendentemente dalle pressioni esterne, che pure hanno un certo peso.
PROGRAMMAZIONE CINEMA ITALIA DAL 26-10 AL 01-11
Lunedì 26 ottobre ore 21 – L’ATTESA di P. Messina – ingresso unico € 5
Mercoledì 28 ottobre ore 21 – L’ATTESA di P. Messina – cineforum
Venerdì 30 ottobre ore 21 – LIFE di Anton Corbijn
Sabato 31 ottobre ore 18.30 – IL BAMBINO CHE SCOPRI’ IL MONDO di Ale Abreu – ingresso unico € 4
Sabato 31 ottobre ore 21 – LIFE di Anton Corbijn
Domenica 1 novembre ore 16 – IL BAMBINO CHE SCOPRI’ IL MONDO di Ale Abreu – ingresso unico € 4
Domenica 1 novembre ore 18 e 20.30 (€ 4) – LIFE di Anton Corbijn
L’ATTESA
Una camera buia, silenziosa, stretta nella rigorosa simmetria dell’inquadratura, e una madre, devastata, sofferente come se qualcuno le avesse appena strappato il ventre, con forza. Tutto all’ombra di un Cristo in croce, nudo, inerme; un uomo, un figlio sacrificatosi per i peccati del mondo, che attende la Pasqua per ritrovare i vivi e consolarli.
Le immagini che segnano il debutto di Piero Messina nel cinema che conta sono istanti che non si dimenticano facilmente, che si insinuano nell’anima per abitarla a tempo indeterminato. Non perché aprono la strada a un soggetto incredibilmente originale, universale, anzi, si parla di elaborazione del lutto, di mancanze, di silenzi, temi abbastanza cari al grande schermo. Per capire bisogna affiancare i personaggi, entrare a passi lievi nella loro umanità, la loro essenza, e ritrovare nei loro occhi momenti di vita che noi stessi abbiamo vissuto o che potremmo vivere. Bisogna condividere con loro il dolore, l’assenza, l’attesa. Già, cos’è questa attesa che regala il titolo al film? Si attendono i momenti giusti, le telefonate, i ritorni, le partenze e gli arrivi, in un casale sperduto nelle campagne del ragusano, in Sicilia. Un non-luogo che per pochi giorni unisce due universi all’apparenza paralleli, quello di una madre che ha appena perso un figlio e quello di una ragazzina francese, timida e inesperta, che attende il ritorno dell’uomo che ama, e che non tornerà. A differenza del pubblico, che lo intuisce, lei ancora non lo sa, dunque è anche da spettatori che si è preda dell’attesa, del momento in cui ogni verità salterà al pettine. La sua presenza, nel frattempo, restituisce ad Anna – seppur idealmente – il figlio perduto; i vestiti del lutto vengono abbandonati in favore dei colori, i drappi neri sugli specchi vengono strappati via, il cibo riprende forma e sapore, prima della resurrezione, della celebrazione, della pace interiore.
Girato con un rigore stilistico assoluto, con un rispetto sacro nei confronti della geometria, dei corpi tagliati e dei simboli, L’Attesa incanta anche dal punto di vista visivo, del resto il segno lasciato dalle esperienze di This Must Be the Place e La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino è molto evidente nel regista siciliano. Chiudono il cerchio una Lou de Laâge di una bellezza disarmante, nelle sue spalle strette, le sue forme incantevoli e gli occhi di ghiaccio, e una Juliette Binoche gigantesca, da premio, china su un materassino gonfiabile a respirare l’anima di chi non c’è più. Ogni suo sguardo parla più delle sue parole, e fuoriesce dallo schermo sotto forma di pura emozione. Non è difficile ritrovare in lei lo spirito delle nostre stesse madri, che ci vorrebbero a casa sempre un giorno in più del possibile, che ci vorrebbero più vicini, più presenti, più complici. Capita invece di delegare tutto all’attesa, al domani, finché un giorno ci si risveglia e ci si accorge che il tempo è stato crudele, infame, e ogni possibilità di recuperare il terreno è sfumata. Recuperiamo tutto, adesso, finché ci è possibile.
LIFE
Jimmy e Dennis sono due giovani che si stanno affermando nei rispettivi mondi a cui ambiscono, il primo in quello del cinema e il secondo in quello della fotografia. Dennis, fotografo della famosa agenzia Magnum, rimane affascinato dalla fotogenia di Jimmy durante un loro fortuito incontro a una festa di Hollywood, e da allora fa di tutto per poter riuscire a lavorare ad un servizio fotografico destinato alla rivista Life proprio sull’attore, che da parte sua ne ricaverebbe una buona visibilità anche in vista dell’uscita del suo secondo film, La valle dell’Eden. Ma Jimmy è schivo e sfuggente, e si farà rincorrere da Los Angeles a New York fin nell’Indiana prima di concedersi all’obiettivo del testardo fotografo e realizzare insieme alcune delle fotografie più celebri che ancora oggi lo ricordano.
Dall’incontro nel 1955 tra Dennis Stock e James Dean è nato non solo un lavoro fotografico vero e sincero, di cui fanno parte alcune delle più note foto dell’attore scomparso solo pochi mesi dopo la pubblicazione, ma anche un’amicizia inattesa che si fa manifesto del cambiamento culturale che in quegli anni stava investendo le nuove generazioni. Da una parte un giovane che abbandona la certezza di una stabilità familiare in una piccola cittadina dell’Indiana per cercare di affermarsi artisticamente in una Hollywood affollata di talenti pronti a tutto pur di sfondare, dall’altra un altro ragazzo di appena 3 anni più grande con alle spalle già un matrimonio disastroso da cui è nato un figlio che non vede mai.
Quello che vediamo in Life è il James Dean alle porte della celebrità, che desidera ardentemente il ruolo in Gioventù bruciata e ricerca la fama senza voler scendere a compromessi, essendo sé stesso e basta, ribelle e testardo, ma si scontra con il volere di mamma Hollywood che ne vuole controllare aspetti della vita, del carattere, delle relazioni. Emblematica in questo senso la scena della registrazione dell’intervista, in cui Dean non si risparmia né contiene su pareri e opinioni con aria strafottente, e che è però prontamente recuperata e distrutta dalla Warner.
Robert Pattinson, invece, con questo ruolo passa freddamente dall’altra parte, da attore bersagliato nella vita reale dai paparazzi a fotografo che insegue “la sua musa”, dall’essere il voyeuristico oggetto della desiderio a voyeur stesso. E come un bambino che ottiene un giocattolo tanto desiderato, quando Stock finalmente riesce a vedere pubblicate le sue foto su Life, lascia solo Dean, che invece insieme a lui, al quale ha dato fiducia e che finalmente lo ha conquistato, vorrebbe fuggire dal mondo dei riflettori che prima ha tanto cercato e che ora inizia a perseguitarlo. Alla fine il suo sarà un viaggio in solitaria senza ritorno. Uno sguardo, quello di DeHaan nella scena del loro ultimo incontro, con cui si fa quasi perdonare alcune pecche della sua interpretazione.
Life come vita, intesa nel senso di quella scintilla elusiva ed essenziale che alcune foto, quelle davvero indimenticabili, riescono a cogliere leggendo l’anima di una persona.
IL BAMBINO CHE SCOPRI’ IL MONDO
Un bambino vive con i suoi genitori in campagna e passa le giornate in compagnia di ciò che gli offre la natura che lo circonda: pesci, alberi, uccelli e nuvole, tutto diventa pretesto per un gioco e una risata, briglie sciolte alla fantasia. Ma un giorno il padre parte per la città in cerca di lavoro. E il bambino, a cui il genitore ha lasciato nel cuore la melodia indimenticabile che gli suonava sempre, mette in valigia una foto della sua famiglia e decide di seguirne le tracce. Si troverà in un mondo a lui completamente ignoto, fatto di campi di cotone a perdita d’occhio, fabbriche cupe, porti immensi e città sovraffollate. Affronterà imprevisti e pericoli per terra e per mare, crescerà, ma qualcosa di quel bambino che si tuffava in mezzo alle nuvole in lui rimarrà sempre.
Il bambino che scoprì il mondo, che pochi tratti stilizzati bastano a definire, non ha nome né voce, crede come tutti i bambini che ogni cosa sia possibile e persegue il suo scopo – ritrovare suo padre – con un’energia e una determinazione incrollabili. L’uso di differenti tecniche di animazione è intimamente legata al soggetto del film: la storia di un bambino che il regista immagina leggero e libero da condizionamenti e pregiudizi.
Questo bambino, dichiara il regista, rappresenta un po’ ognuno di noi: possiamo essere turbati e delusi dal mondo che ci circonda, ma una parte infantile, di sogno e speranza continuano a vivere dentro di noi anche una volta diventati adulti.
JUNIOR CINEMA: UN VIAGGIO INTORNO AL MONDO
La rassegna “Incontriamoci! Un viaggio intorno al mondo” comprende una serie di opere che trattano, con uno sguardo a misura di bambino, un tema importante e spinto con urgenza dall’attualità storico e sociale che stiamo vivendo: l’intercultura (come incontro con gli altri).
Sempre più spesso bambini e ragazzi sono esposti a messaggi mediatici riguardanti persone portatrici di culture diverse e non di rado le incrociano nella propria vita oppure ci convivono giorno per giorno. L’incontro con l’altro apre la relazione a un soggetto che possiede e custodisce un’altra identità e al quale noi riconosciamo pari dignità. L’intercultura riafferma la volontà di un incontro che, da un lato assume le differenze individuali e culturali come una ricchezza, e dall’altro accoglie le radici, le tradizioni, i vissuti, i segni e i significati che ci stimolano a nuovi apprendimenti e che ci fanno sentire partecipi della complessità umana.
Il cinema ha specifiche potenzialità di coinvolgimento degli spettatori, soprattutto i più giovani, in tematiche legate all’intercultura e per favorire in loro un pensiero riflessivo su di esse.
Quando si accende lo schermo del cinema infatti possiamo viaggiare nel tempo e nello spazio, incontrare personaggi sconosciuti e raggiungere mondi lontani o fantastici, conoscere altri modi di vivere e altri modi di pensare.
I film proposti si riferiscono alla tematica interculturale declinata sia nella dimensione dell’incontro tra persone di culture diverse e la loro integrazione, sia come conseguenza di un viaggio che forma e crea una nuova persona.
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