mercoledì 24 febbraio ore 16.30 (€ 4) – 21 (€ 5): IL LABIRINTO DEL SILENZIO
mercoledì 24 febbraio ore 19: PERFETTI SCONOSCIUTI
sabato 27 febbraio ore 18.30: ZOOTROPOLIS
sabato 27 febbraio ore 21: PERFETTI SCONOSCIUTI
domenica 28 febbraio ore 16.30: ZOOTROPOLIS
domenica 28 febbraio ore 18.30 – 21: PERFETTI SCONOSCIUTI
Il labirinto del silenzio
Francoforte, 1958. Johann Radmann è un giovane procuratore deciso a fare sempre quello che è giusto. Un principio, il suo, autografato sulla foto del genitore, scomparso alla fine della Seconda Guerra Mondiale e di cui conserva un ricordo eroico. Ma i padri della nazione, quella precipitata all’inferno da Hitler, a guardarli bene sono più mostri che eroi e Johann dovrà presto affrontarli.
La Shoah ha marcato il secolo scorso con un impronta unica e tragica, influenzando in maniera decisiva i nostri modelli di rappresentazione e particolarmente il cinema. Questa influenza continua a interrogare autori, critici ed esperti e a produrre opere che aiutano a convivere col passato, un passato che non può e non deve passare. E di passato e della sua rielaborazione dice (molto bene) Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli, regista italiano naturalizzato tedesco, che assume il cinema come metodo d’investigazione e approccia il soggetto con l’eloquio lento del diritto.
Con Il labirinto del silenzio assistiamo precisamente a uno slittamento dal piano della visione a quello dell’ascolto, dalla potenza delle immagini a quella delle parole.
Perfetti sconosciuti
Quante coppie si sfascerebbero se uno dei due guardasse nel cellulare dell’altro? È questa la premessa narrativa dietro la storia di un gruppo di amici di lunga data che si incontrano per una cena destinata a trasformarsi in un gioco al massacro. E la parola gioco è forse la più importante di tutte, perché è proprio l’utilizzo “ludico” dei nuovi “facilitatori di comunicazione” – chat, whatsapp, mail, sms, selfie, app, t9, skype, social – a svelarne la natura più pericolosa: la superficialità con cui (quasi) tutti affidano i propri segreti a quella scatola nera che è il proprio smartphone (o tablet, o pc) credendosi moderni e pensando di non andare incontro a conseguenze, o peggio ancora, flirtando con quelle conseguenze per rendere tutto più eccitante. I “perfetti sconosciuti” di Genovese in realtà si conoscono da una vita, si reggono il gioco a vicenda e fanno fin da piccoli il gioco della verità, ben sapendo che di divertente in certi esperimenti c’è ben poco. E si ostinano a non capire che è la protezione dell’altro, anche da tutto questo, a riempire la vita di senso.
Paolo Genovese affronta di petto il modo in cui l’allargarsi dei cerchi nell’acqua di questi “giochi” finisca per rivelare la “frangibilità” di tutti: e la scelta stessa di questo vocabolo al limite del neologismo, assai legato alla delicatezza strutturale di strumenti così poco affidabili e per loro stessa natura caduchi come i nuovi media, indica la serietà con cui il team degli sceneggiatori ha lavorato su un argomento che definire spinoso è poco, visto che oggi riguarda (quasi) tutti. Per una volta il numero degli sceneggiatori (cinque in questo caso, fra cui lo stesso Genovese, senza contare l’intervento importante degli attori che si sono cuciti addosso i rispettivi dialoghi) non denota caos e debolezza strutturale, ma sforzo corale per raccontare una storia che è intrinsecamente fatta di frammenti (verrebbe da dire di bit, byte e pixel), corsa ad aggiungere esempi sempre più calzanti tratti dal reale.
Zootropolis
Il mondo animale è cambiato: non è più diviso in due fra docili prede e feroci predatori, ma armoniosamente coabitato da entrambi. Judy è una coniglietta dalle grandi ambizioni che sogna di diventare poliziotta, poiché le è stato insegnato che tutto è possibile in questo nuovo mondo. Nick è una volpe che vive di espedienti nella capitale, Zootropolis, dove Judy, dopo un’estenuante training in accademia, approda come ausiliaria del traffico. Toccherà a loro, inaspettatamente uniti, risolvere il mistero dei 14 animali scomparsi che tutta la città sta cercando e sventare i piani di chi vuole impossessarsi del potere locale, secondo l’atavico principio dividi et impera.
Zootropolis, cartone Disney supervisionato dall’onnipotente John Lasseter, affronta di petto la tematica più attuale di tutte: l’uso della paura come strumento di governo. E va a toccare un altro degli argomenti più sensibili in ogni epoca, ovvero l’esistenza (o meno) di una predisposizione biologia al crimine per alcune razze e alcune etnie. Ma si spinge anche oltre, andando ad analizzare il rapporto fra massa ed élite, nonché l’opportunità (o meno) di sopprimere la natura selvaggia e istintiva sacrificandola all’ordine sociale, flirtando con l’eterno dilemma se nella formazione degli individui, e delle società, conti maggiormente la natura o la cultura.
In realtà il discorso portante è quello dell’autodeterminazione a dispetto della propria limitata dotazione di base: un discorso che, da Monsters & Co a Planes a Turbo, attraversa molta animazione recente. È la filosofia “Yes you can” che ha portato alla presidenza americana un afroamericano e che sta alle radici del (nuovo) sogno americano. Il corollario di questa filosofia è l’ostinazione “ottusa” di Judy a “non mollare mai”, perché nessuno può dirle ciò che può essere e non essere, ciò che può e non può fare.
mercoledì 17 febbraio ore 18.15: L’ABBIAMO FATTA GROSSA – ingresso € 4
mercoledì 17 febbraio ore 20.45: THE HATEFUL EIGHT
sabato 20 febbraio ore 18.30: IL VIAGGIO DI NORM – ingresso € 5
sabato 20 febbraio ore 21: THE HATEFUL EIGHT
domenica 21 febbraio ore 15.30: IL VIAGGIO DI NORM – ingresso € 5
domenica 21 febbraio ore 17.30: THE HATEFUL EIGHT
domenica 21 febbraio ore 21: THE HATEFUL EIGHT– ingresso € 5
L’abbiamo fatta grossa
Definibile come una sorta di commedia noir, il nuovo film di Verdone è un perfetto connubio di suspense e risate. Prima collaborazione di Verdone con Albanese, il regista sostiene che sia stato certamente il miglior attore e compagno che abbia avuto nella sua carriera, questo a dimostrazione della grande affinità ed amicizia che si è creata tra i due e che fa pensare ad una nuova coppia comica all’interno della commedia italiana che va ad aggiungersi alle tante altre consolidate, o ormai scoppiate, che tuttavia hanno fatto la storia della nostra tradizione comica.
Insieme Carlo e Antonio promettono grandi cose, il lavoro è stato fatto in modo tale che risultasse una sorta di equità nelle parti, senza scavalcamenti. Una recitazione perfettamente curata, così come i dialoghi, scritti dal regista in collaborazione con Pasquale Plastino e Massimo Gaudioso. Anche le immagini sono particolarmente dettagliate, grazie all’ottimo lavoro di Arnaldo Catinari il quale usa due macchine da presa per ogni inquadratura al fine di ottenere sempre quella migliore. Verdone ha voluto scegliere come scenario del suo film i luoghi di una Roma poco battuti dal mondo del cinema, come ad esempio il quartiere Castrense, il Nomentano, Monteverde vecchio e il Caffè Tevere, che come ricorda Verdone in conferenza stampa conserva l’antichità della capitale degli anni ’50, sul quale infatti c’è anche il murales di Pasolini che tiene in braccio Pasolini morto, così da ricordare in qualche modo il contributo cinematografico di quei grandi autori del passato.
Proprio in questo bar lavora Lena, interpretata da Anna Kasyan, colei che sarà la fiamma di Arturo. La nota cantante lirica armena per la prima volta esordisce sullo schermo rivelandosi una gradita sorpresa per la comicità che porta sulla scena. Altri membri del cast che ricoprono ruoli minori ma non insignificanti sono Clotilde Sabatino nei panni di Carla, moglie di Yuri, Virginia Da Brescia che interpreta la Zia Elide, altra figura che fa da ornamento comico nel film, e Massimo Popolizio che incarnerà la figura del nemico, non solo dei protagonisti, ma oserei dire, della società in generale.
Rispetto ai film precedenti si può anche notare, per stessa ammissione del regista, un pizzico di volgarità in più rispetto ai canoni di Verdone. C’è chi sostiene che sia per ottenere una risata facile, ma probabilmente il regista ha voluto semplicemente adattarsi ai tempi risultando più realista e spontaneo, in quanto la comicità dell’intero film nasce dagli equivoci accuratamente pensati e messi in scena e dall’eccezionale gestualità ed interpretazione degli attori.
Per quanto riguarda il montaggio la maggior parte del film è stato costruito mettendo insieme i primi “ciak”, considerati migliori di tutti gli altri, massimo due o tre per scena, proprio perché più spontanei e realistici. Divertimento e suspense si uniscono ad un pizzico di cultura, quando viene recitato, alla fine, un pezzo del monologo di Shakespeare tratto dal Macbeth, capolavoro recentemente oggetto di un film di assoluto successo a livello internazionale.
Il teatro è spesso presente nel film, il quale si apre appunto con una scena teatrale di Yuri che dimentica le battute mandando a monte la performance, e la grandiosità della recitazione degli attori si nota anche e sopratutto nella differenza riscontrabile quando essi sono sul palcoscenico, dove spicca l’enfasi tipica del teatro, rispetto al realismo che, invece, li accompagna nelle restanti scene del film.
Essendo una commedia ci si aspetterebbe un happy ending che, però, forse tale film non soddisfa pienamente. La sorpresa sta infatti nell’assistere ad un finale di denuncia sociale, in quello che sembrava un film favolistico e strutturato puramente per ridere. Se infatti i nostri cari protagonisti non riescono ad uscire dal guaio in cui si sono infilati, essi quantomeno si prenderanno una piccola soddisfazione nei confronti di colui che dovrebbe essere al loro posto, e che invece rappresenta nella maniera più ipocrita “il potere“.
Un piccolo gesto che sarà anche una minima e forse ridicola “rivincita“, ma è tutto quello che è nelle loro possibilità e non si astengono dal farlo. Il film si conclude con una frase significativa, che fa capire come Verdone non si sia fatto esente dal rendere la sua commedia un piccolo veicolo di denuncia sociale, così come lo sono stati i suoi film precedenti: “fatti e personaggi di questo film sono immaginari, ma vera è la realtà che li produce“.
The hateful eight
Variety – Si tratta di un giallo che deve molto tanto ad Agatha Christie quanto ad Anthony Mann. Sebbene Tarantino giochi con molti dei tropi dei classici film western sulla frontiera senza legge, è discutibile il fatto che questo mistero deliziosamente verboso si qualifichi come western vero e proprio. Sarebbe da considerare più nel genere dei film Sudisti contro Nordisti, visto quanta tensione razziale contiene un avamposto altrimenti neutrale. […] Gli spargimenti di sangue e l’eccessiva lunghezza piaceranno unicamente ai cinefili.
THR – Molti di noi sono cresciuti pensando che i cowboy fossero uomini di poche parole, ma Quentin Tarantino ha deciso di dimostrare l’opposto, con un western di tre ore che risulta ventoso sia all’esterno che all’interno. Non c’è assolutamente dubbio su chi abbia scritto questi dialoghi elaborati, pungenti, volgari e spesso divertenti, declamati brillantemente da un buon cast, né su chi abbia inscenato un costante bagno di sangue che finisce per diventare una vera pozza nella parte finale. […] Questo film sembra uno strano mix tra Ombre Rosse di John Ford, Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie e No Exit di Jean-Paul Sartre, con dialoghi che tuttavia ricordano la lunghezza di quelli di The Iceman Cometh di Eugene O’Neill.
The Wrap – Quando pensi a Tarantino che gira un Western in 70mm pensi a incredibili inquadrature di cowboy e bestiame sotto un grande cielo e la campagna, piuttosto che un film decisamente intimo girato all’interno di una stanza. C’è un vero bagno di sangue sullo schermo, questo è certo, e Tarantino gode ancora nel mettere in scena e discutere tematiche razziali di questo Paese, ma The Hateful Eight è meno un film alla Sergio Leone e più uno alla Agatha Christie. Se siete il tipo di spettatore che non ha apprezzato le sequenze ricche di dialoghi di A Prova di Morte o Le Iene, troverete che questo film contiene troppi dialoghi e troppa poca azione per una durata di tre ore.
EW – Come fan di praticamente quasi tutti i film di Quentin Tarantino, mi sono sentito – per la prima volta – vicino alla delusione. Al loro meglio, i suoi film davano la sensazione stordente che “ci fosse troppo” – che c’erano troppe idee ispirate che vibravano nel suo cervello di celluloide, e che queste ci lasciassero sopraffatti. Ma questo film non ha abbastanza idee. Ambientato quasi interamente in un saloon immerso in una bufera di neve, il film ha una storia così modesta che non giustifica le quasi tre ore di durata (inclusa una overture e un intervallo), o l’uso della proiezione in 70mm. È claustrofobico sia narrativamente che visivamente.
Screen Crush – Il film è bello e odioso allo stesso tempo, divertente e sconvolgente, e occasionalmente riflessivo; una volta completamente occupato, il locale di Minnie diventa una sorta di microcosmo Americano, che nella visione ostinata di Tarantino è un melting pot che finisce per scottare tutti. Non ci si può fidare di chi ha il potere, né di chi viene protetto da questi. Si può cercare di togliere le pistole alla gente, ma la gente ne troverà sempre di nuove. E quando tutto diventa più calmo, ciò che resta è il rumore della bufera e della pellicola nel proiettore.
The Guardian – C’è un po’ di Sergio Leone e i classici western pulp di Elmore Leonard; un grande dramma in un luogo piccolo, come una versione alla Sam Peckinpah di un Harold Pinter pieno di parolacce. Ma questo film è talmente particolare che non potrebbe che essere di Tarantino. Il dialogo così ricco di inventiva è ciò che lo fa procedere: la quintessenza dell’America. Thriller è una etichetta generica che ormai ha perso la sua forza. Ma The Hateful Eight riesce a essere un vero thriller.
Indiewire – Non importa quanto possano essere intense le scene singole, il film viene spesso ostacolato dalla stessa fiducia di Tarantino nel materiale originale. Per ogni sequenza avvincente c’è un brusco sviluppo o una frase buttata lì. Il comportamento cruento o le svolte drastiche finiscono per offuscare le sottigliezze registiche di Tarantino. L’eccessiva violenza nelle scene conclusive travolge le ramificazioni più profonde di questo film, e ne reduce l’appeal, trasformando un complesso ritratto degli atteggiamenti in quello del furore. L’inquadratura finale risulta uno dei momenti più cinici della carriera di Tarantino.
Il viaggio di Norm
Un orso polare vegano e ballerino a zonzo per le strade di New York
Norm, un orso bianco e vegano e ballerino con la straordinaria capacità di parlare la lingua umana, deve lasciare il Polo Nord per raggiungere New York e fermare lo spietato costruttore Mr. Grenne, che sta per mettere in atto un piano di edificazione del Circolo Polare Artico destinato a mandarne in frantumi l’ecosistema.
mercoledì 10 febbraio ore 17 – 19 – 21: A PERFECT DAY – ingresso € 5
giovedì 11 febbraio ore 18: L’ABBIAMO FATTA GROSSA
giovedì 11 febbraio ore 20.30: THE PROGRAM – ingresso € 5 (cinema di classe)
sabato 13 febbraio ore 21: L’ABBIAMO FATTA GROSSA
domenica 14 febbraio ore 16.30: IL VIAGGIO DI NORM – ingresso € 5
domenica 14 febbraio ore 18.30 – 21: L’ABBIAMO FATTA GROSSA
Perfect day
A perfect day ovvero il film sulla, anzi, nella guerra dei Balcani che non ti aspetteresti mai.
1995, da qualche parte in Bosnia, un cadavere è stato gettato in un pozzo. Il compito del team della ONG internazionale Aid Across Borders è reperire una fune con cui estrarlo prima che si produca infezione, evitando così che la popolazione locale rimanga senza acqua pulita.
Si capisce fin da subito, da quel posizionare la macchina da presa dentro il pozzo per farci assumere il punto di vista del “problema” (vedi locandina) e anche per via della studiata e convincente leggerezza delle battute con cui i cooperanti sdrammatizzano il quotidiano, che il regista madrileno Fernando León de Aranoa non intende scontrarsi frontalmente con la tragedia della guerra né tantomeno assumerne il tono, bensì avvicinarla lateralmente e lasciare che tracce di dolore trasudino dai margini di una giornata che si rivelerà in verità non proprio perfetta.
Ci troviamo ad affiancare e non ad affrontare la guerra, scavalcando il dilemma morale per concentrarci su quello pratico: appurato che la guerra c’è, come ci si convive? Infatti, nella fattispecie, la criticità da gestire non è la morte col suo carico di detonante silenzio, bensì il suo prosaico prodotto ovvero un corpo in disfacimento che presto minaccerà la purezza dell’acqua e con essa la vita. I membri dell’organizzazione umanitaria impegnati nella risoluzione del problema non sono affatto eroi ma campioni umani possibili: chi si trova sul campo per la prima volta, chi si trascina qualche problema personale, chi teme la fine della missione perchè non ha una ragione per tornare a casa. Sono uomini e donne di diverse nazionalità che riproducono tra loro le note dicotomíe relazionali tra i sessi (noi donne sappiamo sempre cosa bisogna fare in ogni situazione, però pretendiamo che lo facciano gli uomini…).
L’illustre cast a disposizione è di livello internazionale e coordinato dal nostro brillante director senza rimanerne in soggezione e senza rinunciare alla sua idea di film non convenzionale e un po’ ruvido. Come accade in questi casi felici, la partecipazione di attori del calibro di Benicio Del Toro e Tim Robbins ad una pellicola non blasonata, nella quale hanno evidentemente creduto, rende merito a loro stessi e lustro all’opera.
Non abbiate troppa fretta di abbandonare la sala all’inizio dei titoli di coda, le immagini continuano a scorrere sullo schermo abbattendo il confine filmico della vicenda e lasciandoci una buona impressione di generosità, non siamo abituati a ricevere più di quel che ci aspettiamo e invece questa volta è così. Distribuito in Italia da Teodora, da non perdere.
L’abbiamo fatta grossa
Definibile come una sorta di commedia noir, il nuovo film di Verdone è un perfetto connubio di suspense e risate. Prima collaborazione di Verdone con Albanese, il regista sostiene che sia stato certamente il miglior attore e compagno che abbia avuto nella sua carriera, questo a dimostrazione della grande affinità ed amicizia che si è creata tra i due e che fa pensare ad una nuova coppia comica all’interno della commedia italiana che va ad aggiungersi alle tante altre consolidate, o ormai scoppiate, che tuttavia hanno fatto la storia della nostra tradizione comica.
Insieme Carlo e Antonio promettono grandi cose, il lavoro è stato fatto in modo tale che risultasse una sorta di equità nelle parti, senza scavalcamenti. Una recitazione perfettamente curata, così come i dialoghi, scritti dal regista in collaborazione con Pasquale Plastino e Massimo Gaudioso. Anche le immagini sono particolarmente dettagliate, grazie all’ottimo lavoro di Arnaldo Catinari il quale usa due macchine da presa per ogni inquadratura al fine di ottenere sempre quella migliore. Verdone ha voluto scegliere come scenario del suo film i luoghi di una Roma poco battuti dal mondo del cinema, come ad esempio il quartiere Castrense, il Nomentano, Monteverde vecchio e il Caffè Tevere, che come ricorda Verdone in conferenza stampa conserva l’antichità della capitale degli anni ’50, sul quale infatti c’è anche il murales di Pasolini che tiene in braccio Pasolini morto, così da ricordare in qualche modo il contributo cinematografico di quei grandi autori del passato.
Proprio in questo bar lavora Lena, interpretata da Anna Kasyan, colei che sarà la fiamma di Arturo. La nota cantante lirica armena per la prima volta esordisce sullo schermo rivelandosi una gradita sorpresa per la comicità che porta sulla scena. Altri membri del cast che ricoprono ruoli minori ma non insignificanti sono Clotilde Sabatino nei panni di Carla, moglie di Yuri, Virginia Da Brescia che interpreta la Zia Elide, altra figura che fa da ornamento comico nel film, e Massimo Popolizio che incarnerà la figura del nemico, non solo dei protagonisti, ma oserei dire, della società in generale.
Rispetto ai film precedenti si può anche notare, per stessa ammissione del regista, un pizzico di volgarità in più rispetto ai canoni di Verdone. C’è chi sostiene che sia per ottenere una risata facile, ma probabilmente il regista ha voluto semplicemente adattarsi ai tempi risultando più realista e spontaneo, in quanto la comicità dell’intero film nasce dagli equivoci accuratamente pensati e messi in scena e dall’eccezionale gestualità ed interpretazione degli attori.
Per quanto riguarda il montaggio la maggior parte del film è stato costruito mettendo insieme i primi “ciak”, considerati migliori di tutti gli altri, massimo due o tre per scena, proprio perché più spontanei e realistici. Divertimento e suspense si uniscono ad un pizzico di cultura, quando viene recitato, alla fine, un pezzo del monologo di Shakespeare tratto dal Macbeth, capolavoro recentemente oggetto di un film di assoluto successo a livello internazionale.
Il teatro è spesso presente nel film, il quale si apre appunto con una scena teatrale di Yuri che dimentica le battute mandando a monte la performance, e la grandiosità della recitazione degli attori si nota anche e sopratutto nella differenza riscontrabile quando essi sono sul palcoscenico, dove spicca l’enfasi tipica del teatro, rispetto al realismo che, invece, li accompagna nelle restanti scene del film.
Essendo una commedia ci si aspetterebbe un happy ending che, però, forse tale film non soddisfa pienamente. La sorpresa sta infatti nell’assistere ad un finale di denuncia sociale, in quello che sembrava un film favolistico e strutturato puramente per ridere. Se infatti i nostri cari protagonisti non riescono ad uscire dal guaio in cui si sono infilati, essi quantomeno si prenderanno una piccola soddisfazione nei confronti di colui che dovrebbe essere al loro posto, e che invece rappresenta nella maniera più ipocrita “il potere“.
Un piccolo gesto che sarà anche una minima e forse ridicola “rivincita“, ma è tutto quello che è nelle loro possibilità e non si astengono dal farlo. Il film si conclude con una frase significativa, che fa capire come Verdone non si sia fatto esente dal rendere la sua commedia un piccolo veicolo di denuncia sociale, così come lo sono stati i suoi film precedenti: “fatti e personaggi di questo film sono immaginari, ma vera è la realtà che li produce“.
The program
Per sette anni è stato l’incontrastato Re dello sport mondiale, e non solo del ciclismo. L’uomo che sconfisse il cancro per poi far suo il Tour de France, ovvero l’evento sportivo più seguito al mondo, per 7 edizioni consceutive. Nessuno come lui. Un campione, un eroe, un’icona, un bugiardo. Ci voleva un 74enne regista inglese da sempre molto legato alle ‘storie vere’ per portare al cinema la vita sportiva di Lance Armstrong, leggenda su due ruote passato dalle stelle dei trionfi a ripetizione alle stalle dello scandalo doping che l’ha travolto nel 2013, quando la maschera di ciclista tutto forza di volontà e sudore cadde sotti i colpi della verità.
Ascesa e caduta in poco meno di due ore per Stephen Frears, regista di Philomena e The Queen qui chiamato a tratteggiare i lineamenti della frode sportiva probabilmente più celebre e clamorosa di tutti i tempi. Nel farlo il regista si è affidato ad uno script di John Hodge, che ha preso spunto da Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong, libro di David Walsh in Italia pubblicato da Sperling e Kupfer che ha provato a ripercorrere 20 anni della carriera del ciclista americano.
Perché la prima volta del ‘texano’ al Tour de France avvenne nel lontano 1993, all’età di 21 anni appena. Un ragazzino determinato e presuntuoso che Walsh conobbe e intervistò durante una partita a biliardino. Un discreto ciclista da tappe in piano, e non da sfiancanti competizioni, se non fosse che lui, Lance, fosse dannatamente ambizioso e pronto a tutto pur di vincere. Iniziò così a collaborare con Michele Ferrari, medico dell’EPO che attraverso un programma ad ‘hoc’ ricostruì l’atleta Armstrong, uscito malconcio dalla chemio per sconfiggere il cancro ai testicoli. Nel 1999, tornato miracolosamente a cavallo di una bici, un trasformato Lance stravinse il Tour de France, solo un anno prima uscito distrutto dallo ‘scandalo Festina’. Era stato annunciato come il Tour della rinascita e lui, quell’americano mai stato ‘competitivo’ come scalatore, sbalordì il mondo. Vetta dopo vetta. Nacque il mito Armstrong, in realtà sporcato dal programma di doping più sofisticato della storia dello sport, che di fatto permise a Lance e ai suoi compagni dell’americana US Postal di dominare il mondo del ciclismo per quasi un decennio. Solo un giornalista non credette alla ‘favola’ del miracolato, del malato di tumore che diventa Superman. Ovvero proprio quel Walsh che pochi anni prima aveva incrociato uno sconosciuto Armstrong, testando con mano il suo innato amore nei confronti della frode sportiva. Persino in una banale partita a biliardino. Contro tutto e tutti, vedi mondo del giornalismo e del ciclismo, Walsh non ha mai mollato la presa sull’icona idolatrata da mezzo mondo, scommettendo tutto, ma proprio tutto, sul proprio fiuto da ‘innamorato del ciclismo’. Sbancando il banco.
Un uomo ossessionato dalla propria celebrità, travolto dal peso delle proprie ‘responsabilità’, ingabbiato da decenni di vergognose e immorali menzogne. Un uomo che è stato prima mito vivente e poi truffatore epocale. Un uomo dai segreti inconfessabili e dal sangue ossigenato attraverso fiale e siringhe. Un uomo che per un decennio ha rappresentato l’immagine dell’eroe americano, in grado di rialzarsi dalle difficoltà della vita per poi conquistare il mondo. Ma a che prezzo. E con quali strumenti. Non avevano certamente un compito facile Frears e Hodge nel dover raccontare quello che è stato ‘l’imbroglio Armstrong’, tanto sfaccettato, affascinante, inquietante e ricco di contenuti. Non volendo scegliere i due hanno così incamerato tutto, spalmando poco meno di 20 anni in poco meno di due ore di film, snocciolando fatti ed eventi in modo lineare e cronologico. Il risultato, purtroppo, tende così a spiazzare. La ricostruzione storica conquista, grazie anche ad un intenso, somigliante e credibile Ben Foster e alle splendide riprese ‘su strada’ con telecamera montata sulla bici.
Passo dopo passo la truffa viene preparata, cucinata, mangiata e poi finalmente lanciata, attraverso una narrazione oggettivamente dinamica e quasi ‘sorrentiniana’ nel ricordare Il Divo, grazie ad innesti grafici che personaggio dopo personaggio ‘presentano’ i vari nomi della ‘Banda Armstrong’. Dedicato metà film alla ‘genesi’ dell’inganno e al primo trionfo al Tour, The Program scatta poi improvvisamente sui pedali volando indisturbato verso il traguardo, tanto da limitare ad una rapida ultima parte lo scoperchiamento del vaso di Pandora, a cui Frears avrebbe dovuto dedicare maggior spazio. Il castello di menzogne costruito in due decenni da Lance cade frettolosamente, tra pentiti, denunce sportive e quella storica confessione tv da Oprah Winfrey qui allestita e divorata in poche scene, al termine di una lunga e triste pagina di omertà sportiva e giornalistica. Perché tutti sapevano ma nessuno ebbe il coraggio di sbugiardare il ‘campione’, organizzatori del Tour in testa, in quanto accecati dall’abbagliante maschera dell’icona. Ed è qui che si fa spazio il doveroso atto di accusa nei confronti di un mondo, quello del ciclismo, affondato a causa delle proprie menzogne.
Il viaggio di Norm
Un orso polare vegano e ballerino a zonzo per le strade di New York
Norm, un orso bianco e vegano e ballerino con la straordinaria capacità di parlare la lingua umana, deve lasciare il Polo Nord per raggiungere New York e fermare lo spietato costruttore Mr. Grenne, che sta per mettere in atto un piano di edificazione del Circolo Polare Artico destinato a mandarne in frantumi l’ecosistema.
Mercoledì 03 febbraio ore 17.30-19.15-21: FRANCOFONIA – ingresso € 5
Sabato 06 febbraio ore 18.30 – 21: QUO VADO?
Domenica 07 febbraio ore 16.30: IL VIAGGIO DI NORM – ingresso € 5
Domenica 07 febbraio ore 18.30 – 21: QUO VADO? – ingresso € 5
Francofonia
Ancora un museo nel cinema di Sokurov. Un museo e la necessità di un’arca. Dopo l’Hermitage, il Louvre. Arche che preservano le arti, teche ove custodire tesori immortali, collezioni in cui, come infinito nel finito, si raccoglie la memoria dei secoli e della Storia dell’uomo. La Storia. Il potere. I capricci dei tiranni. Da Napoleone a Hitler. Tiranni che si fanno autocelebrare nelle opere d’arte, o che ambiscono a raccogliere, collezionare arte da tutto il mondo, per celebrare la propria (vana) gloria. L’ultimo, eccezionale tassello della straordinaria filmografia di Sokurov, unisce – in modo più esplicito e dichiarato di “Arca Russa” (magari meno sottile ma non meno seducente) – le due colonne portanti della poetica del cineasta russo: il potere, che esprime il peggio dell’uomo, e l’arte, in cui l’uomo si sublima. Un dialogo tragico e affascinante, foriero di inesauribili contraddizioni. Sokurov fa collidere l’eccelso con il triviale, l’arte con l’orrore immane di guerre e tirannie. Pone interrogativi, lascia aperte le questioni.
Dunque, il Louvre. Francofonia. Una giovane donna dal cappello frigio ci guida per le sale del Louvre: è Marianne, simbolo tradizionale della Repubblica francese. Per quelle sale, incontreremo e dialogheremo poi con Napoleone, fiero delle collezioni artistiche raccolte, molte delle quali razziate durante le sue campagne militari. “Tutto ciò che esiste è qui“: il Louvre di Sokurov è metonimia del mondo, arca universale. In esso, ogni epoca, ogni civiltà è chiamata a raccolta, all’ombra della Nike di Samotracia dalle meravigliosi ali. …La vittoria alata, priva di testa, che celebra, ancora una volta, un trionfo militare. Il potere che calpesta l’arte è lo stesso che ne ha bisogno; l’arte si trova costretta a cercare di sopravvivere alle intemperie della Storia, ma dalle vicissitudini umane trae alimento. Anche dalle più terribili, e proprio il cinema di Sokurov è lì a dimostrarlo. Dal triviale scaturisce il sublime, come scintilla da un attrito. Anche la scintilla del genio artistico.
Quo vado?
Checco Zalone non ha ancora esaurito le idee, a ben guardare il successo che continua a raccogliere pellicola dopo pellicola. La sua è un’ascesa continua sia in termini economici che in termini di pubblico, visto che i suoi film sono destinati ad incarnare il nuovo concetto di “nazional popolare”: alla portata di tutti, vengono apprezzati e compresi senza alcuna distinzione di età o estrazione sociale. In poche parole, Zalone fa ridere chiunque. Ormai giunto al suo quarto lungometraggio, le gag non sono mai ripetitive nonostante il suo personaggio resti sempre fedele a se stesso: il sempliciotto di paese, il cosiddetto “italiano medio”, quello pieno di pregiudizi ma che in fondo ispira simpatia proprio per la sua veracità.
Anche in Quo Vado? il protagonista si chiama Checco Zalone e, sebbene non sia più un ragazzino, abita ancora con mamma e papà. Il suo più grande sogno da bambino era diventare un “posto fisso” e il padre, grazie alla classica raccomandazione, riesce a farlo entrare in un ufficio pubblico a mettere timbri. Fidanzato ma con nessuna intenzione di sposarsi (nella sua vita c’è un’altra donna: la madre!), la vita di Checco subisce uno scossone quando viene approvata la legge che elimina le province. Il suo lavoro è in bilico e ci sono solo due possibilità tra cui scegliere: firmare le dimissioni e ricevere una piccola buona uscita oppure accettare un trasferimento. Checco opta per la seconda, seguendo i consigli dell’ex senatore Binetto (interpretato da un divertentissimo Lino Banfi). Il dirigente incaricato di risolvere ogni contratto pendente è una vera lady di ferro (credibilissima in questi ruoli l’attrice Sonia Bergamaschi) che lo sposta da una parte all’altra del Paese al solo scopo di farlo desistere, ma lo spirito d’adattamento e soprattutto la venerazione per il posto fisso permetteranno a Checco di trovarsi bene in qualsiasi posto. Anche… al Polo Nord! Lì il povero impiegato troverà nuovi valori, nuovi stimoli e soprattutto l’amore. Ma nessuno immagina quali saranno le ‘disastrose’ conseguenze di tutto questo…
In Quo vado? il mito del posto fisso è estremizzato: divertenti le scene in cui Lino Banfi si sveglia nel cuore della notte per ammonirlo: “Non lasciare il posto fisso a nessun costo, non firmare!”. Checco Zalone conosce perfettamente quali siano i difetti dell’Italia e gioca con loro, facendone una parodia esagerata ma estremamente veritiera. Il film regala battute e situazioni divertenti, eppure le maggiori risate sono dovute al fatto di finire inevitabilmente col riconoscere nella storia le tare dell’intero popolo italiano. Zalone le esaspera e a volte le ridicolizza, eppure il ritratto finale è ineccepibile: sdrammatizzandoli e svelandoli senza pudore l’attore ha conquistato il cuore dell’Italia che, per quanto possa essere imperfetta, sa ancora ridere di se stessa e dei suoi vizi.
Il viaggio di Norm
Un orso polare vegano e ballerino a zonzo per le strade di New York
Norm, un orso bianco e vegano e ballerino con la straordinaria capacità di parlare la lingua umana, deve lasciare il Polo Nord per raggiungere New York e fermare lo spietato costruttore Mr. Grenne, che sta per mettere in atto un piano di edificazione del Circolo Polare Artico destinato a mandarne in frantumi l’ecosistema.
Il film è diretto da Trevor Wall, al suo debutto al lungometraggio dopo aver realizzato numerosi episodi di Sabrina, vita da strega. Nella versione originale, a prestare la voce a Norm è Rob Schneider, conosciuto soprattutto per aver preso parte a numerose commedie di successo (Mamma, ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York, Big Daddy – Un papà speciale, Gigolò per sbaglio, Un weekend da bamboccioni).