mercoledì 24 febbraio ore 16.30 (€ 4) – 21 (€ 5): IL LABIRINTO DEL SILENZIO
mercoledì 24 febbraio ore 19: PERFETTI SCONOSCIUTI
sabato 27 febbraio ore 18.30: ZOOTROPOLIS
sabato 27 febbraio ore 21: PERFETTI SCONOSCIUTI
domenica 28 febbraio ore 16.30: ZOOTROPOLIS
domenica 28 febbraio ore 18.30 – 21: PERFETTI SCONOSCIUTI
Il labirinto del silenzio
Francoforte, 1958. Johann Radmann è un giovane procuratore deciso a fare sempre quello che è giusto. Un principio, il suo, autografato sulla foto del genitore, scomparso alla fine della Seconda Guerra Mondiale e di cui conserva un ricordo eroico. Ma i padri della nazione, quella precipitata all’inferno da Hitler, a guardarli bene sono più mostri che eroi e Johann dovrà presto affrontarli.
La Shoah ha marcato il secolo scorso con un impronta unica e tragica, influenzando in maniera decisiva i nostri modelli di rappresentazione e particolarmente il cinema. Questa influenza continua a interrogare autori, critici ed esperti e a produrre opere che aiutano a convivere col passato, un passato che non può e non deve passare. E di passato e della sua rielaborazione dice (molto bene) Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli, regista italiano naturalizzato tedesco, che assume il cinema come metodo d’investigazione e approccia il soggetto con l’eloquio lento del diritto.
Con Il labirinto del silenzio assistiamo precisamente a uno slittamento dal piano della visione a quello dell’ascolto, dalla potenza delle immagini a quella delle parole.
Perfetti sconosciuti
Quante coppie si sfascerebbero se uno dei due guardasse nel cellulare dell’altro? È questa la premessa narrativa dietro la storia di un gruppo di amici di lunga data che si incontrano per una cena destinata a trasformarsi in un gioco al massacro. E la parola gioco è forse la più importante di tutte, perché è proprio l’utilizzo “ludico” dei nuovi “facilitatori di comunicazione” – chat, whatsapp, mail, sms, selfie, app, t9, skype, social – a svelarne la natura più pericolosa: la superficialità con cui (quasi) tutti affidano i propri segreti a quella scatola nera che è il proprio smartphone (o tablet, o pc) credendosi moderni e pensando di non andare incontro a conseguenze, o peggio ancora, flirtando con quelle conseguenze per rendere tutto più eccitante. I “perfetti sconosciuti” di Genovese in realtà si conoscono da una vita, si reggono il gioco a vicenda e fanno fin da piccoli il gioco della verità, ben sapendo che di divertente in certi esperimenti c’è ben poco. E si ostinano a non capire che è la protezione dell’altro, anche da tutto questo, a riempire la vita di senso.
Paolo Genovese affronta di petto il modo in cui l’allargarsi dei cerchi nell’acqua di questi “giochi” finisca per rivelare la “frangibilità” di tutti: e la scelta stessa di questo vocabolo al limite del neologismo, assai legato alla delicatezza strutturale di strumenti così poco affidabili e per loro stessa natura caduchi come i nuovi media, indica la serietà con cui il team degli sceneggiatori ha lavorato su un argomento che definire spinoso è poco, visto che oggi riguarda (quasi) tutti. Per una volta il numero degli sceneggiatori (cinque in questo caso, fra cui lo stesso Genovese, senza contare l’intervento importante degli attori che si sono cuciti addosso i rispettivi dialoghi) non denota caos e debolezza strutturale, ma sforzo corale per raccontare una storia che è intrinsecamente fatta di frammenti (verrebbe da dire di bit, byte e pixel), corsa ad aggiungere esempi sempre più calzanti tratti dal reale.
Zootropolis
Il mondo animale è cambiato: non è più diviso in due fra docili prede e feroci predatori, ma armoniosamente coabitato da entrambi. Judy è una coniglietta dalle grandi ambizioni che sogna di diventare poliziotta, poiché le è stato insegnato che tutto è possibile in questo nuovo mondo. Nick è una volpe che vive di espedienti nella capitale, Zootropolis, dove Judy, dopo un’estenuante training in accademia, approda come ausiliaria del traffico. Toccherà a loro, inaspettatamente uniti, risolvere il mistero dei 14 animali scomparsi che tutta la città sta cercando e sventare i piani di chi vuole impossessarsi del potere locale, secondo l’atavico principio dividi et impera.
Zootropolis, cartone Disney supervisionato dall’onnipotente John Lasseter, affronta di petto la tematica più attuale di tutte: l’uso della paura come strumento di governo. E va a toccare un altro degli argomenti più sensibili in ogni epoca, ovvero l’esistenza (o meno) di una predisposizione biologia al crimine per alcune razze e alcune etnie. Ma si spinge anche oltre, andando ad analizzare il rapporto fra massa ed élite, nonché l’opportunità (o meno) di sopprimere la natura selvaggia e istintiva sacrificandola all’ordine sociale, flirtando con l’eterno dilemma se nella formazione degli individui, e delle società, conti maggiormente la natura o la cultura.
In realtà il discorso portante è quello dell’autodeterminazione a dispetto della propria limitata dotazione di base: un discorso che, da Monsters & Co a Planes a Turbo, attraversa molta animazione recente. È la filosofia “Yes you can” che ha portato alla presidenza americana un afroamericano e che sta alle radici del (nuovo) sogno americano. Il corollario di questa filosofia è l’ostinazione “ottusa” di Judy a “non mollare mai”, perché nessuno può dirle ciò che può essere e non essere, ciò che può e non può fare.