giovedì 12 maggio ore 18.45 – 21 (€ 3): LE STAZIONI DELLA FEDE – festival biblico
domenica 15 maggio ore 21 (€ 5): MISTER CHOCOLAT
mercoledì 18 maggio ore 16.30 (€ 4) – 18.30 e 21 (€ 5): THE LESSON – cineforum
giovedì 19 maggio ore 19 – 21 (€ 3): MARIE HEURTIN – festival biblico
Le confessioni
In un resort di lusso a bordo di una distesa d’acqua gli otto ministri economici delle grandi potenze soggiornano in attesa del summit che deciderà il futuro del mondo occidentale. Il consesso è presieduto da Daniel Roché, direttore del Fondo monetario internazionale, che ha invitato anche tre ospiti estranei al mondo dell’economia: una scrittrice di best seller per bambini, una rock star e un monaco, Roberto Salus. Roché chiede a Salus di ascoltare la sua confessione, e subito dopo viene trovato morto. Per i ministri le decisioni diventano tre: se quella morte sia un suicidio o un omicidio, come comunicarla al pubblico, e se si debba proseguire con la manovra che i ministri avrebbero dovuto varare nel corso del summit.
Dopo il successo di Viva la libertà, Roberto Andò affronta l’habitat politico-economico collocando i suoi personaggi nel pieno centro della scena, ma anche costringendoli in una sorta di laboratorio di osservazione suddiviso in loculi. Gli otto ministri formano il pantheon della contemporaneità occidentale, e come gli dèi dell’Olimpo sono fallibili e fallati, dunque le loro decisioni hanno spesso ricadute nefaste sui mortali. Quando il loro Zeus viene a mancare scoprono di non avere né una guida né una direzione, e ognuno comincia a reagire alla presenza del monaco portando alla coscienza (è il caso di dirlo) quel dubbio che ha fino a quel momento negato per obbedire alle leggi dell’economia e alla ragion di Stato, anche dopo che la sovranità nazionale si è arresa alla sottomissione al Fondo monetario. Siamo in zona Todo modo ma anche nella cornice dechirichiana de Il divo: pochi potenti in uno spazio asettico e confinato chiamati a confrontarsi con la dimensione etica del proprio ruolo.
La messinscena racconta una dimensione metafisica che a ben guardare non riguarda né la politica né l’economia e nemmeno la religione o l’arte, incarnate simbolicamente dai tre ospiti estranei al G8: il terreno di gioco è quello etico e Salus, diversamente dal Don Gaetano di Todo Modo, non ha i toni dell’inquisizione e non sollecita le confessioni di nessuno, ma si limita a raccogliere lo spaesamento di questi potenti del nulla, incapaci di portare i propri paesi fuori dalla crisi, o anche solo di confessare pubblicamente la propria inadeguatezza. Salus fa da cartina di tornasole dei dubbi e dei rimorsi di tutti, e i personaggi, né più né meno dei luoghi che attraversano, entrano ed escono da se stessi in un continuo gioco di sovrapposizioni e successivi disallineamenti fra (presa di) coscienza e reiterazione di un ruolo preconfezionato dalla Storia.
La regia di Andò è nitida e squadrata, racconta un mondo inerte persino nell’emergenza, muove le sue pedine in un tempo sospeso che diventa immateriale non perché “variabile dell’anima” ma perché non rivendicabile nemmeno da chi mette a punto gli orologi che segnano il ritmo di vita del resto del mondo. Salus.
Il cast di Le confessioni asseconda la visione metafisica e stupefatta del suo regista: Toni Servillo è un catalizzatore morale passivo e sibillino, Pierfrancesco Favino un ministro agìto dal suo ruolo e condannato ad essere estraneo a se stesso. Nessuno scambio verbale è spontaneo perché ogni frase è un testamento, ovvero una confessione. Ma per questi dèi condannati a governare il caos non c’è assoluzione, solo la possibilità di compiere una presa d’atto della propria intrinseca manchevolezza.
Mister Chocolat
Rafael Padilla, nome d’arte Chocolat, nacque a Cuba intorno al 1860. Dal circo al teatro, dall’anonimato alla fama, il film racconta il suo incredibile destino di primo artista nero in Francia a calcare la scena di un teatro e, con il clown Footit, a creare un duo comico di successo tra un artista bianco e uno di colore divenuto poi popolare nella Parigi della Belle Epoque, fino a quando questioni legate al denaro, al gioco d’azzardo e alla discriminazione razziale compromisero l’amicizia e la carriera di Chocolat. Il film racconta la struggente storia vera di un’amicizia unica e profonda in un’epoca di pregiudizi e discriminazioni.
Le stazioni della fede
La struttura di Kreuzweg è matematica, dopo un prologo il film si suddivide in piccoli quadri corrispondenti alle varie stazioni della via crucis. Ogni quadro è costituito quasi da un’inquadratura unica in cui tutto avviene. Ogni volta quindi assistiamo ad una scena in tempo reale, cioè nella quale la durata della scena corrisponde al tempo in cui la vediamo noi. Saltando qualche giorno ad ogni quadro assistiamo ad alcuni minuti nella vita della protagonista, la cui storia si fa sempre più appassionante.
Deviata da un’educazione bigotta cattolica la bambina al centro della storia desidera essere rigorosa, ha interiorizzato i precetti e li vuole eseguire alla lettera per aiutare il fratello malato. Tutta la forza di Kreuzweg sta nella maniera minimale, controllata e molto precisa con la quale la situazione sfugge sempre più di mano.
Se vi siete mai chiesti a cosa serva e che radici o motivazioni abbia lo stile rarefatto e lento del cinema più autoriale Kreuzweg è la risposta. Controllando tutto Bruggeman realizza effettivamente dei quadri, delle immagini in cui la composizione è al limite della perfezione tra estetica e funzionalità, tra montaggio interno (l’entrata e uscita dei protagonisti e il loro movimento nell’inquadratura) e scelte visive. Il tono dimesso della recitazione e il ritmo frenato sono la maniera migliore per entrare in una storia che è difficile da comprendere e frustrante da seguire. Quello raccontato infatti è un martirio che una persona infligge a se stessa per instradarsi su un impossibile percorso di santità ma Bruggeman lo fa senza un odio eccessivo o un punto di vista di condanna per la religione (tanto che inserisce anche personaggi dal credo più morbido).
Ma lo stile compassato di Kreuzweg è soprattutto importante per lo spiazzante finale che dimostra la buona fede del cineasta e la complessità della storia. Lungo tutto il film attraverso quel punto di vista così apparentemente oggettivo (camera fissa, nessuna enfasi) abbiamo l’impressione di assistere ai fatti per come si sono svolti, liberi di farci una nostra idea. In realtà scopriamo alla fine di aver avuto un pregiudizio anche noi, di essere stati influenzati dal film a farci certe idee che vengono smontate a sorpresa.
Proprio questo avanti e indietro tra ragione e torto, tra pregiudizio ed esito della storia, è un movimento fondamentale per la comprensione la potenza e la forza dello stile più antipatico e respingente ma, se utilizzato bene, anche il più complesso e coinvolgente
The lesson
Da cosa nasce l’idea di scrivere un film come THE LESSON? Queste le parole dei registi: “Alcuni anni fa venne riportato in televisione che, in una cittadina bulgara, una donna aveva rapinato una banca.
Tutti sospettavano che fosse stata una tossicomane, una criminale… Nessuno poteva immaginare che la rapinatrice della banca fosse in realtà una rispettabile insegnante con due lauree. Questo evento, accaduto nella nostra realtà, ci aveva lasciato una profonda traccia e aveva fatto sì che ci chiedessimo quale fosse la ragione che spinge una persona rispettabile a diventare una criminale. THE LESSON è il primo
lungometraggio che va a comporre una futura trilogia. Le tre storie narrate sono state ispirate dalla vita reale, ma questa è stata solo uno spunto per avviare un processo creativo. L’elemento che accomuna le tre storie è il tema della silenziosa ribellione delle persone semplici che combattono la logica mercantile, crudele e cinica del mondo in cui viviamo”. La parte difficile del film, e che i registi riescono a portarsi a casa, è il fatto che nonostante lo sguardo di THE LESSON risulti distaccato, lo spettatore rimane fino all’ultima scena con la curiosità di sapere quale sarà l’epilogo della storia. Si percepisce la non volontà dei due registi di pennellare una morale più o meno condivisa ma di creare un affresco crudo e spietato dello spaccato di vita di questa donna. Lo spettatore è così portato a seguire passo dopo passo la scoperta e la tentata risoluzione di ogni ostacolo che si frappone tra Nadezhda e la sua normalità
Marie Heurtin
Ispirato alla vita della vera Marie, ragazza cieca e sordomuta vissuta in Francia alla fine del 1800, il film di Jean-Pierre Améris si propone come un istintivo incrocio tra Il ragazzo selvaggio (1970) di Francois Truffaut e Anna dei miracoli (1962) di Arthur Penn, sfidando con ambizione e temerarietà la portata che questi due titoli hanno avuto nella storia del Cinema. Marie Heurtin – Dal buio alla luce è un’opera che spinge su una genuina retorica, intarsiando i novanta minuti di visione su una forte e struggente carica emozionale che conquista pur nei suoi eccessi palesemente strappalacrime; se a tratti il regista di Emotivi anonimi (2010) sembra spingere eccessivamente sul lato melodrammatico, è indubbio che la forza del racconto sia proprio nell’etica morale incarnata dalla figura di Marguerite, donna pronta a tutto pur di abbattere il muro di solitudine della povera Marie. Ed è così che ci si trova a commuoversi per il sorprendente cambiamento della ragazzina, che da selvaggia e indomabile si trasforma, grazie alle amorevoli cure della suora, in un essere puro di gioia e amore, pronta a donare la sua esperienza ad altre ragazze sfortunate. Ambientata quasi totalmente nel convento, immerso in una natura fresca e incontaminata, la pellicola è pregna di una spiritualità non dogmatica che abbraccia un pubblico ampio e trasversale grazie all’intensa dose di tenerezza che esplode in catartiche scene madri (l’incontro di Marie coi genitori, dopo mesi di lontananza, in primis) e alle strepitose performance delle sue due protagoniste: Isabelle Carré è amabile e testarda nella sua missione da angelo della salvezza, mentre l’esordiente Ariana Rivoire, sorda dalla nascita, si adatta con caparbietà ad un ruolo che condivide solo in parte anche nella vita reale.
Con un linguaggio dei segni che si trasforma con mirabile ispirazione in un alfabeto di gesti e contatti, Marie Heurtin – Dal buio alla luce ci porta alla scoperta della storia di Marie, ragazza sordomuta e cieca realmente vissuta a cavallo tra due secoli. Il regista Jean-Pierre Améris guarda ai classici del genere con omaggi e citazioni ma trova poi una sua via personale in questo racconto toccante e struggente che vive quasi totalmente sulla dirompente alchimia tra le due protagoniste. Se a tratti la monotonia fa capolino e una certa furbizia strappalacrime non è del tutto estranea ai novanta minuti di visione, le emozioni di certo non mancano in questa strenua lotta per abbattere le barriere più crudeli