Giacomo è il primogenito di una famiglia molto facoltosa. Quand’era bambino il padre ha commesso suicidio, lasciando un vuoto che il figlio ha cercato di colmare con studi approfonditi e un’attrazione verso l’esoterismo. Quando un guru gli comunica che il padre si è reincarnato in un certo Mario Pitagora, Giacomo, senza porsi troppe domande, va alla ricerca dell’uomo che dovrà dare un senso e una direzione alla sua vita. Ma Mario è tutto fuorché un padre modello: un imbroglione da quattro soldi pieno di debiti e alienato da moglie e figli.
Dopo il successo del suo lungometraggio di esordio alla regia, Se Dio vuole, Edoardo Falcone torna a proporre una coppia di uomini apparentemente incompatibili e in realtà complementari.
Quel che è interessante, nel caso di Questione di karma, è che il crinale che divide i due è qui costituito dal denaro, terzo protagonista e motore immobile non solo della trama del film, ma della nostra contemporaneità: Giacomo ne ha moltissimo e non sa cosa farsene, Mario cerca continuamente di procurarselo ma non riesce a trattenerlo. Entrambi sono agìti da forze economiche, l’uno perché il lusso in cui è cresciuto, e di cui è beneficiario ma non artefice, gli ha impedito di assumere la guida della propria vita, l’altro perché i miraggi di guadagno facile lo lasciano sprovvisto dei mezzi concreti per occuparsi di sé e della sua famiglia.
Sotto le mentite spoglie della commedia classica in cui uno dei protagonisti cerca di truffare l’altro, in realtà (e forse anche oltre le intenzioni del regista) Questione di karma racconta il modo in cui il denaro ha polarizzato e depotenziato il maschile nel mondo di oggi, dividendo gli uomini fra quelli che cercano di prescinderne, inventandosi una spiritualità “Occidentali’s karma”, e quelli che ne sono schiavi, condannandosi ad una perpetua rincorsa. Non è un caso che l’unico personaggio che sa gestire con misura e intelligenza il possesso economico (e sa generarlo) sia la sorella di Giacomo, Ginevra, che sfugge allo stereotipo della donna in carriera fredda e arrivista per rivelarsi ruolo atavicamente femminile: la levatrice.
1 candidatura ai Premi Oscar, Il film è stato premiato al Festival di Cannes e 1 candidatura ai Cesar.
Scampato a una tempesta tropicale e spiaggiato su un’isola deserta, un uomo si organizza per la sopravvivenza. Sotto lo sguardo curioso di granchi insabbiati esplora l’isola alla ricerca di qualcuno e di qualcosa. Qualcosa che gli permetta di rimettersi in mare. Favorito dalla vegetazione rigogliosa costruisce una zattera, una, due, tre volte. Ma i suoi molteplici tentativi sono costantemente impediti da una forza sotto marina e misteriosa che lo rovescia in mare. A sabotarlo è un’enorme tartaruga rossa contro cui sfoga la frustrazione della solitudine e da cui riceve consolazione alla solitudine. La tartaruga rossa debutta con una tempesta in alto mare. Onde gigantesche frangono con furore lo schermo. Un naufrago è al cuore di quel movimento poderoso. Tra l’uomo e la natura si scatena una guerra ineguale. Il motivo è dato ma il sontuoso film d’animazione di Michaël Dudok de Wit si prende tutto il tempo per rovesciarlo nel suo contrario: un’emozionante storia di riconciliazione e di fusione amorosa. Perché quella che dispiega La tartaruga rossa è una forza misteriosa, qualche volta accogliente e qualche altra riluttante, qualche volta impassibile, qualche altra instabile.
Non siamo davanti all’ennesima storia esotica in cui la natura è mera riserva di accessori a disposizione dell’ingegnosità dell’uomo. Al principio l’uomo fa l’uomo e crede alla chimera di una conquista. Si accanisce, costruisce una zattera di fortuna ma il mare non lo lascia partire. Dieci, cento volte prova a prendere il largo, altrettante è affondato da una presenza enigmatica e invisibile. Ma l’ultimo tentativo gli rivela l’apparenza del suo avversario e la consapevolezza di essere (una) parte del tutto. Frustrati nelle attese e nelle abitudini di spettatori, torniamo a riva, esploriamo col protagonista i luoghi, sperimentiamo la dolcezza dei frutti e la furia brutale delle piogge tropicali, precipitando nel fondo di un crepaccio e rialzandoci perché film e vita possano continuare. Nel modo della natura. Natura con cui il regista stabilisce un legame carnale. Spettatore e protagonista aspettando sulla riva che il tempo scorra, volgendo il punto di vista e scoprendo essenziale quello che credevano ornamentale: i flussi e riflussi della corrente marina, il ritmo dei giorni, il mutare delle stagioni. L’uomo non colonizza quel territorio edenico e selvaggio, niente capanna come avrebbe fatto Robinson Crusoe. Sull’isola tutto resta inviolato, l’uomo è solo di passaggio, una parentesi breve dinanzi all’età dell’universo.
Animato a mano con acquerello e carboncino, La tartaruga rossa respira con la natura e parla la sua lingua. Senza dialoghi, questo racconto contemplativo si esprime attraverso la luce cangiante, il fragore di un temporale, lo schianto di un tuono, lo scroscio di una corrente di acqua dolce, il crepitio del fuoco, l’infrangersi delle onde, il fruscio delle foglie. Il supplemento di animismo giapponese tradisce l’influenza dello Studio Ghibli, l’afflato e la partecipazione di Isao Takahata e Hayao Miyazaki, sedotti dai lavori dell’autore olandese (The Monk and the Fish, Father and Daughter), percorsi da una malinconia tenace che dice della fuga del tempo, degli anni che passano sul bordo del fiume o su un’isola in mezzo al mare.
La tartaruga rossa è un’opera semplice e metaforica che disegna la vita attraverso le sue tappe (ostacoli, scoperte, solitudine, amore, genitorialità, vecchiaia, morte) ed esprime un rispetto profondo per la natura e la natura umana, veicolando un sentimento di pace e ammirazione davanti al suo mistero. Rivelazione sospesa tra terra e mare, tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, La tartaruga rossa è drammatizzato con la sola forza del disegno, dei colori, dei movimenti, della musica che interpreta e amplifica la purezza delle linee.
Tra oriente e occidente si realizza il sogno di un disegnatore solitario che si spinge per la prima volta al di là dei limiti del formato corto, confermando i suoi racconti lineari su cui dispone motivi circolari, l’infinito ripetersi del tempo. Luogo di una vita a due e poi a tre, un bambino nasce da quell’unione, l’isola ospita l’avventura umana eludendo il pamphlet ecologista e sottolineando l’incapacità dell’uomo a vivere da solo. Che si tratti di un’allucinazione del protagonista o della volontà della tartaruga, la metamorfosi dell’animale rinvia al bisogno della vita in comunità, all’esigenza di istituire un sistema sociale, anche elementare come quello della famiglia. L’autore tacita la parola, concentrandosi sul linguaggio dell’azione e del corpo, preponendo i nostri complessi istinti primari. Gli stessi che spingono una tartaruga che nasce sulla spiaggia a dirigersi verso il mare.
Più dalle parti di Rousseau che di Defoe, La tartaruga rossa è poesia meditativa accomodata tra la foresta magica della Principessa Mononoke e l’oceano di Ponyo. Da qualche parte, lungo i tropici del capolavoro.
Il diritto di contare di T. Melfi
Nella Virginia segregazionista degli anni Sessanta, la legge non permette ai neri di vivere insieme ai bianchi. Uffici, toilette, mense, sale d’attesa, bus sono rigorosamente separati. Da una parte ci sono i bianchi, dall’altra ci sono i neri. La NASA, a Langley, non fa eccezione. I neri hanno i loro bagni, relegati in un’aerea dell’edificio lontano da tutto, bevono il loro caffè, sono considerati una forza lavoro flessibile di cui disporre a piacimento e sono disprezzati più o meno sottilmente. Reclutate dalla prestigiosa istituzione, Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson sono la brillante variabile che permette alla NASA di inviare un uomo in orbita e poi sulla Luna. Matematica, supervisore (senza esserlo ufficialmente) di un team di ‘calcolatrici’ afroamericane e aspirante ingegnere, si battono contro le discriminazioni (sono donne e sono nere), imponendosi poco a poco sull’arroganza di colleghi e superiori. Confinate nell’ala ovest dell’edificio, finiscono per abbattere le barriere razziali con grazia e competenza.
La qualità più grande del film di Theodore Melfi è quella di sfogliare una pagina sconosciuta della NASA. Pagina ‘bianca’ coniugata fino ad oggi al maschile. Se la storia, il contributo delle scienziate afroamericane alla conquista dello spazio, è una novità, la maniera di raccontarla è convenzionale ma non per questo meno appassionante.
Il diritto di contare mette in scena efficacemente il razzismo e il sessismo ordinario dei bianchi, concentrandosi sui drammi silenziosi che muovono la Storia in avanti. Suscettibile di incontrare il favore di un largo pubblico, Melfi sa bene quando spingere l’emotività dislocando lo sguardo sul romance di Katherine e James, Il diritto di contare segue la storia dell’esplorazione spaziale americana attraverso lo sguardo di tre eroine intelligenti e ostinate che hanno cambiato alla loro maniera il mondo. Hanno doppiato la ‘linea del colore’, inviato John Glenn in orbita e Neil Armstrong sulla Luna.
Raffello. Il principe delle arti. di L. Viotto
Dopo il successo dei primi 3 film, Sky e Nexo Digital, in collaborazione con i Musei Vaticani, e con Magnitudo Film, presentano il quarto film d’arte per il cinema: Raffaello – il Principe delle Arti, la prima trasposizione cinematografica mai realizzata su Raffaello Sanzio (1483-1520). Raffaello – il Principe delle Arti, prodotto da Sky, con Sky Cinema e Sky Arte, segue il percorso tracciato dai 3 precedenti progetti, con un ulteriore apporto innovativo che pone l’accento su un aspetto ancora più cinematografico: è un connubio tra digressioni artistiche, affidate a celebri storici dell’arte, raffinate ricostruzioni storiche, che garantiscono un coinvolgimento intimo ed emotivo, e le più evolute tecniche di ripresa cinematografica in UHD per un’esperienza visiva totalizzante e coinvolgente. La digressione artistica partira` da Urbino (città natale di Raffaello) passando per Firenze, per approdare a Roma e in Vaticano, al contempo apice ed epilogo del folgorante percorso artistico di Raffaello: un totale di 20 location e 70 opere, di cui oltre 30 di Raffaello, raccontate attraverso molteplici esclusive e punti di vista inediti. La digressione artistica sara` affidata al commento autorevole ed appassionato di tre celebri storici dell’arte: Antonio Paolucci, Antonio Natali e Vincenzo Farinella.
Le ricostruzioni storiche, ispirate a dipinti dell’800 che testimoniano frammenti di vita di Raffaello, rappresentano istantanee della vita dell’artista, momenti delicati ed evocativi capaci di coinvolgere emotivamente lo spettatore introducendolo nei capitoli di digressione artistica.
A dare il volto a Raffaello Sanzio nelle ricostruzioni storiche sarà l’attore e regista Flavio Parenti. La Fornarina, la donna amata dall’artista, sara` interpretata da Angela Curri, mentre Enrico Lo Verso darà il volto a Giovanni Santi e Marco Cocci a Pietro Bembo. Scenografia e costumi sono stati curati da due eccellenze del cinema italiano, rispettivamente Francesco Frigeri e Maurizio Millenotti..
Ferzan Ozpetek traspone su grande schermo il suo romanzo autobiografico, “Rosso Istanbul”. Come nel libro, anche nel film il protagonista è un affermato regista turco che un giorno decide di tornare nella capitale turca, dov’è nato e dove ha trascorso infanzia e adolescenza. Un ritorno a casa improvviso, il suo, che gli riserverà non poche sorprese.
Dopo 8 lavori realizzati tutti in Italia, con questo film il regista torna agli esordi della sua carriera, gli anni scanditi da Il bagno turco e Harem Suare. Il cineasta mette l’accento sul tema del ritorno che – dice – “quasi sempre è legato al cambiamento”. E aggiunge: “Tutti abbiamo assistito in questi anni al cambiamento del rapporto tra Occidente e Oriente, non solo politico e sociologico ma anche emotivo che è poi l’aspetto che più mi coinvolge. Perché è cambiato, dopo tanto tempo trascorso in Italia, anche il mio rapporto con Istanbul. Con questo film, attraverso i personaggi ognuno dei quali è una parte di me, tento di ricucire quella relazione”.
Il cast è composto di attori turchi tra i quali il pubblico italiano riconoscerà Serra Yilmaz, una delle ‘muse’ del regista.
È una co-produzione italo-turca prodotta da R&C Produzioni e BKM con Rai Cinema. Produttori Tilde Corsi e Gianni Romoli.
Il lago dei cigni (bolshoi ballet)
Durante la serata è prevista un gustosa sorpresa per gli spettatori
Sotto il chiaro di luna, sulle rive di un lago misterioso, il Principe Siegfried incontra Odette, la donna-cigno sotto incantesimo. Completamente affascinato dalla sua bellezza, le giura fedeltà per sempre. Tuttavia, il principe si accorgerà troppo tardi che il destino ha un altro piano per lui… Un balletto di bellezza sublime e una musica di impareggiabile perfezione, nato proprio al Bolshoi nel 1877. Nel duplice ruolo di Odette/Odile, cioè cigno bianco e cigno nero, la prima ballerina Svetlana Zakharova trasuda vulnerabilità e astuzia attraverso una superba maestria tecnica, affiancata da un potente ed emozionante Siegfried, Denis Rodkin. Con le scene mozzafiato del corpo di ballo del Bolshoi, è il balletto classico per eccellenza.
La marcia dei pinguini: il richiamo di L. Jacquet
Un pinguino imperatore, dopo aver covato l’uovo che conteneva suo figlio e aver poi tenuto al caldo il figlio stesso dalla nascita fino al raggiungimento di una dimensione ragguardevole, deve insegnargli a diventare adulto e avviarlo verso il viaggio in direzione del Mare Antartico dove il pulcino dovrà imparare a nuotare e a procurarsi il cibo come ogni altro membro del branco. Questo processo di iniziazione non è privo di incognite o di pericoli, dalle tempeste di neve ai crepacci ai predatori, ma papà pinguino non si ferma davanti a nulla e consegna junior al destino per cui è stato messo al mondo.
12 anni dopo il successo mondiale di La marcia dei pinguini, lo scienziato e documentarista francese Luc Jacquet torna a raccontare i più simpatici abitanti dell’Antartide attraverso un lavoro che ha richiesto mesi di osservazioni e di riprese, sopra e sotto la banchisa ghiacciata.
Il risultato è il resoconto accorato e partecipe della vita di una comunità che commuove per spirito unitario e determinazione ad affrontare insieme ogni impresa, dalle lunghe marce di migliaia di componenti alla formazione a testuggine per fare fronte ai venti gelidi del Polo.
Fin dalla prima scena La marcia dei pinguini – Il richiamo conferma l’enorme capacità pittorica di Jacquet, che non si accontenta di documentare l’esistente ma cerca di dargli un senso estetico profondo, aumentando con ralenti, primissimi piani e riprese mozzafiato il valore cinematografico della storia che racconta. Le immagini sono ben lontane dalla distanza oggettiva di certe (pur bellissime) sequenze del National Geographic perché restano impregnate della forte empatia del regista nei confronti delle creature che ritrae.
Questione di karma di E. Falcone
Giacomo è il primogenito di una famiglia molto facoltosa. Quand’era bambino il padre ha commesso suicidio, lasciando un vuoto che il figlio ha cercato di colmare con studi approfonditi e un’attrazione verso l’esoterismo. Quando un guru gli comunica che il padre si è reincarnato in un certo Mario Pitagora, Giacomo, senza porsi troppe domande, va alla ricerca dell’uomo che dovrà dare un senso e una direzione alla sua vita. Ma Mario è tutto fuorché un padre modello: un imbroglione da quattro soldi pieno di debiti e alienato da moglie e figli.
Dopo il successo del suo lungometraggio di esordio alla regia, Se Dio vuole, Edoardo Falcone torna a proporre una coppia di uomini apparentemente incompatibili e in realtà complementari.
Quel che è interessante, nel caso di Questione di karma, è che il crinale che divide i due è qui costituito dal denaro, terzo protagonista e motore immobile non solo della trama del film, ma della nostra contemporaneità: Giacomo ne ha moltissimo e non sa cosa farsene, Mario cerca continuamente di procurarselo ma non riesce a trattenerlo. Entrambi sono agìti da forze economiche, l’uno perché il lusso in cui è cresciuto, e di cui è beneficiario ma non artefice, gli ha impedito di assumere la guida della propria vita, l’altro perché i miraggi di guadagno facile lo lasciano sprovvisto dei mezzi concreti per occuparsi di sé e della sua famiglia.
Sotto le mentite spoglie della commedia classica in cui uno dei protagonisti cerca di truffare l’altro, in realtà (e forse anche oltre le intenzioni del regista) Questione di karma racconta il modo in cui il denaro ha polarizzato e depotenziato il maschile nel mondo di oggi, dividendo gli uomini fra quelli che cercano di prescinderne, inventandosi una spiritualità “Occidentali’s karma”, e quelli che ne sono schiavi, condannandosi ad una perpetua rincorsa. Non è un caso che l’unico personaggio che sa gestire con misura e intelligenza il possesso economico (e sa generarlo) sia la sorella di Giacomo, Ginevra, che sfugge allo stereotipo della donna in carriera fredda e arrivista per rivelarsi ruolo atavicamente femminile: la levatrice.
1 candidatura ai Premi Oscar, Il film è stato premiato al Festival di Cannes e 1 candidatura ai Cesar.
Scampato a una tempesta tropicale e spiaggiato su un’isola deserta, un uomo si organizza per la sopravvivenza. Sotto lo sguardo curioso di granchi insabbiati esplora l’isola alla ricerca di qualcuno e di qualcosa. Qualcosa che gli permetta di rimettersi in mare. Favorito dalla vegetazione rigogliosa costruisce una zattera, una, due, tre volte. Ma i suoi molteplici tentativi sono costantemente impediti da una forza sotto marina e misteriosa che lo rovescia in mare. A sabotarlo è un’enorme tartaruga rossa contro cui sfoga la frustrazione della solitudine e da cui riceve consolazione alla solitudine. La tartaruga rossa debutta con una tempesta in alto mare. Onde gigantesche frangono con furore lo schermo. Un naufrago è al cuore di quel movimento poderoso. Tra l’uomo e la natura si scatena una guerra ineguale. Il motivo è dato ma il sontuoso film d’animazione di Michaël Dudok de Wit si prende tutto il tempo per rovesciarlo nel suo contrario: un’emozionante storia di riconciliazione e di fusione amorosa. Perché quella che dispiega La tartaruga rossa è una forza misteriosa, qualche volta accogliente e qualche altra riluttante, qualche volta impassibile, qualche altra instabile.
Non siamo davanti all’ennesima storia esotica in cui la natura è mera riserva di accessori a disposizione dell’ingegnosità dell’uomo. Al principio l’uomo fa l’uomo e crede alla chimera di una conquista. Si accanisce, costruisce una zattera di fortuna ma il mare non lo lascia partire. Dieci, cento volte prova a prendere il largo, altrettante è affondato da una presenza enigmatica e invisibile. Ma l’ultimo tentativo gli rivela l’apparenza del suo avversario e la consapevolezza di essere (una) parte del tutto. Frustrati nelle attese e nelle abitudini di spettatori, torniamo a riva, esploriamo col protagonista i luoghi, sperimentiamo la dolcezza dei frutti e la furia brutale delle piogge tropicali, precipitando nel fondo di un crepaccio e rialzandoci perché film e vita possano continuare. Nel modo della natura. Natura con cui il regista stabilisce un legame carnale. Spettatore e protagonista aspettando sulla riva che il tempo scorra, volgendo il punto di vista e scoprendo essenziale quello che credevano ornamentale: i flussi e riflussi della corrente marina, il ritmo dei giorni, il mutare delle stagioni. L’uomo non colonizza quel territorio edenico e selvaggio, niente capanna come avrebbe fatto Robinson Crusoe. Sull’isola tutto resta inviolato, l’uomo è solo di passaggio, una parentesi breve dinanzi all’età dell’universo.
Animato a mano con acquerello e carboncino, La tartaruga rossa respira con la natura e parla la sua lingua. Senza dialoghi, questo racconto contemplativo si esprime attraverso la luce cangiante, il fragore di un temporale, lo schianto di un tuono, lo scroscio di una corrente di acqua dolce, il crepitio del fuoco, l’infrangersi delle onde, il fruscio delle foglie. Il supplemento di animismo giapponese tradisce l’influenza dello Studio Ghibli, l’afflato e la partecipazione di Isao Takahata e Hayao Miyazaki, sedotti dai lavori dell’autore olandese (The Monk and the Fish, Father and Daughter), percorsi da una malinconia tenace che dice della fuga del tempo, degli anni che passano sul bordo del fiume o su un’isola in mezzo al mare.
La tartaruga rossa è un’opera semplice e metaforica che disegna la vita attraverso le sue tappe (ostacoli, scoperte, solitudine, amore, genitorialità, vecchiaia, morte) ed esprime un rispetto profondo per la natura e la natura umana, veicolando un sentimento di pace e ammirazione davanti al suo mistero. Rivelazione sospesa tra terra e mare, tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, La tartaruga rossa è drammatizzato con la sola forza del disegno, dei colori, dei movimenti, della musica che interpreta e amplifica la purezza delle linee.
Tra oriente e occidente si realizza il sogno di un disegnatore solitario che si spinge per la prima volta al di là dei limiti del formato corto, confermando i suoi racconti lineari su cui dispone motivi circolari, l’infinito ripetersi del tempo. Luogo di una vita a due e poi a tre, un bambino nasce da quell’unione, l’isola ospita l’avventura umana eludendo il pamphlet ecologista e sottolineando l’incapacità dell’uomo a vivere da solo. Che si tratti di un’allucinazione del protagonista o della volontà della tartaruga, la metamorfosi dell’animale rinvia al bisogno della vita in comunità, all’esigenza di istituire un sistema sociale, anche elementare come quello della famiglia. L’autore tacita la parola, concentrandosi sul linguaggio dell’azione e del corpo, preponendo i nostri complessi istinti primari. Gli stessi che spingono una tartaruga che nasce sulla spiaggia a dirigersi verso il mare.
Più dalle parti di Rousseau che di Defoe, La tartaruga rossa è poesia meditativa accomodata tra la foresta magica della Principessa Mononoke e l’oceano di Ponyo. Da qualche parte, lungo i tropici del capolavoro.
Oscar 2017 – miglior film – miglior sceneggiatura non originale –
miglior attore non protagonista
Da quando, a partire dall’inizio del nuovo millennio, il cinema afroamericano ha cominciato a presidiare in pianta stabile la programmazione del circuito ufficiale, la preoccupazione dei suoi esponenti più importanti e celebrati è stata quella di preservarne il vitalismo che in larga parte coincideva con l’orgoglio di razza e i richiami alle proprie origini presenti nei lavori di registi come Spike Lee, John Singleton e Mario Van Peebles, che, seppur con risultati tra loro non paragonabili, possiamo oggi considerare i precursori di questo movimento. Tutt’altro che scontate, le preoccupazioni del regista di “Fai la cosa giusta” si riferivano soprattutto al rischio di sudditanza derivata dalla volontà di farsi accettare dall’establishment come in parte è avvenuto con il fiorire di un filone più commerciale perfettamente sovrapponibile alla produzioni di genere (soprattutto commedie) hollywoodiane. La Festa del cinema di Roma prova a dare un contributo alla discussione animandola con la presenza di due titoli come “The Birth of the Nation” di Nate Parker e soprattutto di “Moonlight” diretto da Barry Jenkins, destinati ad animare il dibattito. E se il film di Parker, di cui parliamo in altra sede, si inserisce nella maniera più classica nel filone dei titoli che rileggono la storia per denunciare gli orrori della schiavitù, quello di Jenkins ha le carte in regola per figurare tra i titoli capaci di segnare uno scarto rispetto a ciò che l’ha preceduto.
La trama, divisa in tre atti, ognuno dei quali corrispondenti a una diversa fase della vita del protagonista (infanzia, adolescenza ed età adulta), ci propone uno degli scenari più tipici rappresentato dal ghetto nero (di Miami) in cui, tra violenza, emarginazione e degrado sociale, vive il giovane Chiron, che trova conforto nell’amicizia con il boss del quartiere e la sua compagna, presso i quali si rifugia per supplire all’assenza della madre tossicodipendente e per trovare un’alternativa al bullismo dei compagni di scuola.
Dalla tradizione non si discosta neanche l’iconografia della fauna sociale regolata da una legge della strada uguale a quella che faceva da sfondo alle storie di “Boys on the Hood” e “Training Days”, solo per citare due dei lungometraggi più emblematici, né quella urbanistica, dominata dal degrado e dalla decadente fatiscenza del quartiere natale. Ad essere diversi, però, sono la sensibilità del regista e il suo punto di vista sulle vite dei personaggi. Jenkins, infatti, non rinuncia ai temi della droga, della violenza e della discriminazione sociale, ma li filtra attraverso un intimismo che serve alla storia per mettere in scena una formazione esistenziale segnata dalla diversità sessuale, che Chiron scoprirà innamorandosi dell’amico del cuore. In questa maniera il modello del gangsta movie viene svuotato degli stilemi tipici del genere per essere riempito da una poetica rivolta a trasfigurare i turbamenti dell’anima e le ragioni del cuore; con la dicotomia tra realtà e apparenza enfatizzata dalla trasformazione fisica e caratteriale di Chiron, uscito dal carcere trasformato nel corpo e nello spirito per difendersi dal peso delle antiche fragilità.
Tratto da “Moonlight Black Boys Look Blue”, opera teatrale di Tarell Alvin McCraney, il film di Jenkins tradisce la sua matrice con immagini che non si limitano ad accompagnare la narrazione ma che si incaricano di inventarla, quando la vicenda riflette sulla condizione umana del protagonista e sulle molte rinascite (familiare, sessuale, sociale) della sua esistenza, ogni volta associate alla presenza dell’acqua, elemento psicanalitico destinato a fungere da fonte battesimale nella sequenza del bagno con Juan, che suggella la responsabilità genitoriale assunta dall’uomo nei confronti del suo piccolo amico.
Sei vie per Santiago di L.B. Smith (film sottotitolato in italiano)
serata evento, ospiti in sala persone che hanno percorso il cammino
Wayne ha 65 anni, ha perso da poco la moglie. Cammina con Jack, 73 anni, il prete episcopale che ha celebrato il funerale. Misa è danese, sportiva, competitiva. Pensava che avrebbe voluto camminare da sola, ma poi ha incontrato il canadese William, che ha il suo stesso passo veloce, e non si sono più seprati. Annie viene da Los Angeles, il ginocchio le fa male, la fatica la fa piangere, ma smettere sarebbe ancora più doloroso. E poi ci sono Sam, dal Brasile, in piena crisi esistenziale, Tomas, che non sapeva se fare kite-surfing o intraprendere il cammino, Tatiana, di 26 anni, fervente religiosa, con il fratello ateo e il figlio Alexis, che di anni ne ha 3, ed è il più giovane della compagnia.
Il cammino di Santiago di Compostela è lungo quasi 800 kilometri e attraversa il Nord della Spagna per terminare nell’Oceano a Finisterre. Non è un’impresa semplice, eppure sono secoli che le genti di ogni dove lo percorrono. Molti partono con una domanda nel cuore, perché in quello spazio e in quel tempo, immersi nella natura e segnati dalla fatica ma anche dall’emozione, il confronto con se stessi è inevitabile e spesso illuminante. La regista lo ha fatto nel 2008, dopodiché, al ritorno a casa, la stessa “chiamata” che l’aveva messa sulla strada spagnola la prima volta, l’ha indotta a tornare per documentare il pellegrinaggio di altre persone. Il suo approccio è profondamente umanistico: il paesaggio ha ovviamente il suo spazio, ma non è alla sua contemplazione che si dedica il documentario. Allo stesso modo, la geografia del percorso, la pittoresca burocrazia dei timbri, il cibo e le messe, finiscono inevitabilmente nelle riprese di Lydia B. Smith ma non viene concesso loro uno spazio autonomo. Al centro, dall’inizio alla fine, ci sono le persone (le sei che ha scelto al montaggio, dopo averne seguite più del doppio per un totale di 300 ore di girato).
Piove, fa freddo, oppure il sole brucia in testa e sulle spalle, le vesciche sono causa di dolori atroci, la febbre può allettare per un po’, ma ogni giorno è diverso, ogni tratto è diverso, e questo cambiamento, di sfondo e di umore è in fondo una metafora della vita, e si va avanti nonostante tutto, sperimentando difficoltà e gioie a fasi alterne, in vista della ricompensa finale, in autostima e significato.
Dal film della Smith emerge bene un piccolo paradosso: quello che s’intraprende, anche se non sempre in solitaria, come un viaggio individuale, alla ricerca di sé, della risposta che probabilmente abbiamo già dentro ma dietro una nebbia troppo fitta per riconoscerla, si trasforma quasi sempre in un’esperienza di condivisione e di collettività. Il Cammino, sembra dire il film, in un modo o nell’altro, ti sorprende. Ed è in questo sovvertire le aspettative che il Cammino incontra la vita e anche il cinema
Ozzy – cucciolo coraggioso di A. Rodriguez
Ozzy, un simpatico beagle, svolge una vita serena e idilliaca fino al giorrno in cui i suoi padroni, devono improvvisamente partire per il Giappone senza la possibilità di portarlo con loro. Profondamente addolorati, i Martins dovranno cercare una sistemazione temporanea per Ozzy e la scelta ricade su un canile extra lusso. Ma quello che all’apparenza sembra un paradiso di amore e coccole, si rivelerà ben presto una terribile prigione per cani, gestita da un proprietario malvagio. Ozzy dovrà trovare la forza di resistere e il coraggio di scappare grazie anche all’aiuto dei suoi nuovi amici a 4 zampe.
Il primo meraviglioso spettacolo di D. Sibaldi
sarà presente in sala il regista
Quando si è bambini, non esistono differenze, pregiudizi, razze. E non esistono stranieri. Tutti si riconoscono uguali attraverso il gioco e lo spirito d’avventura. Succede proprio questo nel documentario «Il primo meraviglioso spettacolo» del regista e scrittore Davide Sibaldi, promosso da Amnesty International e Unicef e in programma il 19 febbraio al teatro dell’Affratellamento in via Gianpaolo Orsini 73 (ore 17,30 e ore 21, ingresso 7 euro, parte dell’incasso sarà devoluto alle attività di Amnesty a sostegno dei diritti umani). Basato sul libro sui rifugiati dal titolo «Giuseppe lo sputafuoco», scritto e illustrato proprio da Sibaldi, il film racconta la storia di un grande spettacolo teatrale in cui recitano 45 bambini provenienti da 11 Paesi del mondo e altri bambini italiani con disabilità psichica.
Infanzia e integrazione
Un film per bambini, ma soprattutto per gli adulti, sull’importanza del bambino interiore che regna in ciascun essere umano e che dovremmo imparare ad ascoltare. Tre le parti: prima la storia del libro sui rifugiati raccontata a cartoni animati; poi la fase di realizzazione dello spettacolo teatrale dei bambini; infine le interviste ai 35 bambini dello spettacolo e ai genitori su infanzia e integrazione. Ed è quest’ultima parte ad evidenziare i differenti approcci ai temi della diversità tra i bambini e gli adulti. «Questo spettacolo teatrale — ha spiegato il regista Sibaldi — è stato creato per unire ulteriormente i bambini delle differenti culture e capacità psichiche. E da questo spettacolo è nato il documentario, che intende affrontare l’immigrazione con un approccio diverso, concentrandosi sugli aspetti positivi e gioiosi, superando le etichette di dolore e distruzione con cui solitamente viene raffigurato questo tema».
La marcia dei pinguini: il richiamo di L. Jacquet
Un pinguino imperatore, dopo aver covato l’uovo che conteneva suo figlio e aver poi tenuto al caldo il figlio stesso dalla nascita fino al raggiungimento di una dimensione ragguardevole, deve insegnargli a diventare adulto e avviarlo verso il viaggio in direzione del Mare Antartico dove il pulcino dovrà imparare a nuotare e a procurarsi il cibo come ogni altro membro del branco. Questo processo di iniziazione non è privo di incognite o di pericoli, dalle tempeste di neve ai crepacci ai predatori, ma papà pinguino non si ferma davanti a nulla e consegna junior al destino per cui è stato messo al mondo.
12 anni dopo il successo mondiale di La marcia dei pinguini, lo scienziato e documentarista francese Luc Jacquet torna a raccontare i più simpatici abitanti dell’Antartide attraverso un lavoro che ha richiesto mesi di osservazioni e di riprese, sopra e sotto la banchisa ghiacciata.
Il risultato è il resoconto accorato e partecipe della vita di una comunità che commuove per spirito unitario e determinazione ad affrontare insieme ogni impresa, dalle lunghe marce di migliaia di componenti alla formazione a testuggine per fare fronte ai venti gelidi del Polo.
Fin dalla prima scena La marcia dei pinguini – Il richiamo conferma l’enorme capacità pittorica di Jacquet, che non si accontenta di documentare l’esistente ma cerca di dargli un senso estetico profondo, aumentando con ralenti, primissimi piani e riprese mozzafiato il valore cinematografico della storia che racconta. Le immagini sono ben lontane dalla distanza oggettiva di certe (pur bellissime) sequenze del National Geographic perché restano impregnate della forte empatia del regista nei confronti delle creature che ritrae.
Rosso Istanbul di F. Ozpetek
Ferzan Ozpetek traspone su grande schermo il suo romanzo autobiografico, “Rosso Istanbul”. Come nel libro, anche nel film il protagonista è un affermato regista turco che un giorno decide di tornare nella capitale turca, dov’è nato e dove ha trascorso infanzia e adolescenza. Un ritorno a casa improvviso, il suo, che gli riserverà non poche sorprese.
Dopo 8 lavori realizzati tutti in Italia, con questo film il regista torna agli esordi della sua carriera, gli anni scanditi da Il bagno turco e Harem Suare. Il cineasta mette l’accento sul tema del ritorno che – dice – “quasi sempre è legato al cambiamento”. E aggiunge: “Tutti abbiamo assistito in questi anni al cambiamento del rapporto tra Occidente e Oriente, non solo politico e sociologico ma anche emotivo che è poi l’aspetto che più mi coinvolge. Perché è cambiato, dopo tanto tempo trascorso in Italia, anche il mio rapporto con Istanbul. Con questo film, attraverso i personaggi ognuno dei quali è una parte di me, tento di ricucire quella relazione”.
Il cast è composto di attori turchi tra i quali il pubblico italiano riconoscerà Serra Yilmaz, una delle ‘muse’ del regista.
È una co-produzione italo-turca prodotta da R&C Produzioni e BKM con Rai Cinema. Produttori Tilde Corsi e Gianni Romoli.
Sono passati cinque giorni dalla morte di John Kennedy e la stampa bussa alla porta di Jackie per chiedere il (reso)conto. Una relazione particolareggiata dei fatti di Dallas. Sigaretta dopo sigaretta, Jackie ristabilirà la verità e stabilirà la sua storia attraverso le domande di Theodore H. White, giornalista politico di “Life”. Una favola che il suo interlocutore redige e Jackie rilegge, rettifica, manipola, perfeziona per dire al mondo di Camelot, dell’arme, la dama e il cavaliere che fecero l’impresa e la Storia fino al declino della loro buona stella.
Tra la verità e la favola c’è Jackie. Quella di Pablo Larraín, isolata in una giornata d’autunno, dopo l’assassinio del consorte e prima del ritiro dalla vita pubblica. Un intervallo spazio temporale che l’autore cileno ricostruisce in un film storico-vestimentario, cercando l’identità personale dietro quella fittizia, lungo i corridoi e le stanze della Casa Bianca, sotto la seta e i tailleurs di crêpe, di fronte ai manichini inarticolati vestiti da Chanel. E nella silhouette di un manichino, che la protagonista osserva nelle vetrine di una boutique, batte il cuore di un ritratto inflessibile che si contrappone a quello rotondo di Neruda. Diversi nel segno le due opere procedono tuttavia vigorosamente tra Storia e finzione, dominati da una sorta di insolenza che soggiace al cinema dell’autore. Da una parte la celebrazione della creazione artistica, della sua aspirazione al sublime e dei suoi compromessi con la realtà (Neruda), dall’altra il gesto espressivo che sviluppa uno stile personale e costruisce un’immagine pubblica, una condotta verbale e non verbale fatta di gesti, acconciature, abiti, gioielli e attitudini (Jackie).
Alla maniera di Neruda, il carattere finzionale di Jackie è stabilito dalle prime sequenze, l’incontro tra Jackie e il giornalista di “Life” è ripartito in piani dislocati in décor differenti (la confessione col prete al cimitero, il tour alla Casa Bianca con CBS News, etc), che indicano l’impossibilità della ricostruzione fondata sulla sola memoria. L’incertezza è il fondamento stesso di Jackie. È quanto serve di base a una straordinaria creazione di finzione che Larraín consacra alla relazione intercorrente tra corpo e abito. Perché Jackie seppe esprimere come nessun’altra i messaggi inibiti dalla parola, trasformando la Casa Bianca in una maison di stile e di glamour, appropriandosi dei media dell’epoca, radio e televisione, intuendo l’importanza di un abito nella figurazione della propria identità e del proprio ruolo sociale, veicolando la politica del consorte e soffiando un vento nuovo sulla residenza presidenziale.
Un re allo sbando di P. Brosens
Festival del Cinema di Venezia 2016 – sezione orizzonti
Che Peter Brosens e Jessica Woodworth fossero capaci di un cinema decisamente eccentrico rispetto ai grandi baricentri della produzione contemporanea, che si parli i prodotti più commerciali o di quelli d’autore destinati ai mercati festivalieri, lo avevamo capito già quando, a Venezia, vedemmo La quinta stagione: a metà tra il fiabesco surrealismo letterario di Shane Jones e la pittura di Pieter Bruegel.
Qui non ci sono né il primo né la seconda, ma c’è ancora quello spirito anarchico e irriverente con il quale i due autori raccontano storie strampalate in grado, però, di parlare del mondo e dell’essere umano.
Un Re allo sbando (brutto titolo italiano scelto per King of the Belgians, scelto probabilmente per attirare il pubblico della commedia più tradizionale), riesce infatti a raccontare una storia dove – a partire da uno spunto nemmeno troppo fanta-politico, quello di una Vallonia che si dichiara indipendente dal Belgio fiammingo – un sovrano deve letteralmente scappare da una capitale straniera che non vorrebbe lasciarlo andare (motivi d’immagine e diplomatici) e affrontare una comica e assurda fuga attraverso i Balcani; una storia che, appunto, parla del nostro mondo, di un’Europa che ha perso il senso di sé stessa ed è lacerata dalle spinte nazionaliste, e di un uomo, un Re stanco e spento, disattivato dalle formalità del protocollo, che ritrova sé stesso e la sua libertà personale.
Nati documentaristi, Brosens e Woodworth scelgono per questo film di finzione la strada del mockumentary (tutto è raccontato attraverso l’occhio della videocamera del regista inglese che la Regina aveva assunto per un documentario istituzionale sul Re, Nicolas III) e della commedia strampalata, spolverando il tutto con un grottesco vagamente demenziale, trovando così una curiosa ma giusta distanza per divertire (prima di tutto, ma senza negarsi un pizzico di amarezza a fin di bene) e raccontare scena e retroscena dei suoi personaggi: oltre al Re – un bravissimo Peter Van den Begin, maschera tutt’altro che monocorde – ci sono il suo ligio addetto al protocollo, una giovane e agguerrita addetta stampa, un valletto personale e ovviamente il regista del documentario.
Tutti, alle prese con l’imprevedibile e con una fuga che li riporterà a contatto diretto con il vero cuore dell’Europa e del suo popolo (e anche del loro, di cuore), perderanno progressivamente maschere e abiti, avvicinandosi in maniera quasi pericolosa a un disvelamento completo di sé, per poi (sapere di dover) reindossare tutto ma con nuova consapevolezza.
Più di tutti, ovviamente il Re. L’unico, non a caso, a metterli letteralmente nudo per fare il bagno nel mezzo del Mediterraneo che stanno tentando di attraversare in maniera improvvisata e rocambolesca.
Perché è il protagonista del film, certo. Perché è lui il personaggio cui era destinato il più evidente e necessario arco di trasformazione. Perché era lui a dover riprendere in mano il controllo della sua vita: delle sue parole, come raccontato dal ricorrente e costante tentativo di scrivere un discorso che riunisca nuovamente il suo Stato e il suo popolo.
Ma anche perché, semplicemente, è il Re. L’uomo simbolo di un’istituzione considerata sorpassata e antimoderna, l’uomo che, proverbialmente, è solo al comando (ma privo oramai di potere e ruolo) e la cui solitudine esistenziale è stata esplorata così spesso da cinema e letteratura.
Si è perso il Re, viva il Re.
Ozzy – cucciolo coraggioso di A. Rodriguez
Ozzy, un simpatico beagle, svolge una vita serena e idilliaca fino al giorrno in cui i suoi padroni, devono improvvisamente partire per il Giappone senza la possibilità di portarlo con loro. Profondamente addolorati, i Martins dovranno cercare una sistemazione temporanea per Ozzy e la scelta ricade su un canile extra lusso. Ma quello che all’apparenza sembra un paradiso di amore e coccole, si rivelerà ben presto una terribile prigione per cani, gestita da un proprietario malvagio. Ozzy dovrà trovare la forza di resistere e il coraggio di scappare grazie anche all’aiuto dei suoi nuovi amici a 4 zampe.
Moonlight di B. Jenkins
Oscar 2017 – miglior film – miglior sceneggiatura non originale –
miglior attore non protagonista
Da quando, a partire dall’inizio del nuovo millennio, il cinema afroamericano ha cominciato a presidiare in pianta stabile la programmazione del circuito ufficiale, la preoccupazione dei suoi esponenti più importanti e celebrati è stata quella di preservarne il vitalismo che in larga parte coincideva con l’orgoglio di razza e i richiami alle proprie origini presenti nei lavori di registi come Spike Lee, John Singleton e Mario Van Peebles, che, seppur con risultati tra loro non paragonabili, possiamo oggi considerare i precursori di questo movimento. Tutt’altro che scontate, le preoccupazioni del regista di “Fai la cosa giusta” si riferivano soprattutto al rischio di sudditanza derivata dalla volontà di farsi accettare dall’establishment come in parte è avvenuto con il fiorire di un filone più commerciale perfettamente sovrapponibile alla produzioni di genere (soprattutto commedie) hollywoodiane. La Festa del cinema di Roma prova a dare un contributo alla discussione animandola con la presenza di due titoli come “The Birth of the Nation” di Nate Parker e soprattutto di “Moonlight” diretto da Barry Jenkins, destinati ad animare il dibattito. E se il film di Parker, di cui parliamo in altra sede, si inserisce nella maniera più classica nel filone dei titoli che rileggono la storia per denunciare gli orrori della schiavitù, quello di Jenkins ha le carte in regola per figurare tra i titoli capaci di segnare uno scarto rispetto a ciò che l’ha preceduto.
La trama, divisa in tre atti, ognuno dei quali corrispondenti a una diversa fase della vita del protagonista (infanzia, adolescenza ed età adulta), ci propone uno degli scenari più tipici rappresentato dal ghetto nero (di Miami) in cui, tra violenza, emarginazione e degrado sociale, vive il giovane Chiron, che trova conforto nell’amicizia con il boss del quartiere e la sua compagna, presso i quali si rifugia per supplire all’assenza della madre tossicodipendente e per trovare un’alternativa al bullismo dei compagni di scuola.
Dalla tradizione non si discosta neanche l’iconografia della fauna sociale regolata da una legge della strada uguale a quella che faceva da sfondo alle storie di “Boys on the Hood” e “Training Days”, solo per citare due dei lungometraggi più emblematici, né quella urbanistica, dominata dal degrado e dalla decadente fatiscenza del quartiere natale. Ad essere diversi, però, sono la sensibilità del regista e il suo punto di vista sulle vite dei personaggi. Jenkins, infatti, non rinuncia ai temi della droga, della violenza e della discriminazione sociale, ma li filtra attraverso un intimismo che serve alla storia per mettere in scena una formazione esistenziale segnata dalla diversità sessuale, che Chiron scoprirà innamorandosi dell’amico del cuore. In questa maniera il modello del gangsta movie viene svuotato degli stilemi tipici del genere per essere riempito da una poetica rivolta a trasfigurare i turbamenti dell’anima e le ragioni del cuore; con la dicotomia tra realtà e apparenza enfatizzata dalla trasformazione fisica e caratteriale di Chiron, uscito dal carcere trasformato nel corpo e nello spirito per difendersi dal peso delle antiche fragilità.
Tratto da “Moonlight Black Boys Look Blue”, opera teatrale di Tarell Alvin McCraney, il film di Jenkins tradisce la sua matrice con immagini che non si limitano ad accompagnare la narrazione ma che si incaricano di inventarla, quando la vicenda riflette sulla condizione umana del protagonista e sulle molte rinascite (familiare, sessuale, sociale) della sua esistenza, ogni volta associate alla presenza dell’acqua, elemento psicanalitico destinato a fungere da fonte battesimale nella sequenza del bagno con Juan, che suggella la responsabilità genitoriale assunta dall’uomo nei confronti del suo piccolo amico..