Planetarium di R. Zotlowski
FUORI CONCORSO ALLA 73. MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2016)
Laura (Natalie Portman) e Kate (Lily-Rose Depp), alla vigilia della II Guerra Mondiale, sono due sorelle che si guadagnano da vivere con sedute spiritiche private e in teatro. Quando il loro peregrinare le porta a Parigi, incontrano il produttore cinematografico Andre (Emmanuel Salinger), che decide di ospitarle in casa propria, ossessionato dall’idea di riuscire a cogliere su pellicola le esperienze extrasensoriali. Mentre i poteri di Kate diventano l’ossessione di Andre, Laura diventa un’attrice quasi per caso.
Opera terza di Rebecca Zlotowski, anche coautrice della sceneggiatura con Robin Campillo, Planetarium è un film dalle molteplici anime, che la regista affronta con una temerarietà che le si deve riconoscere. I diversi temi s’intrecciano, richiedendo alla macchina cinematografica, in montaggio e immagine, di adeguarsi alle deviazioni mentali che la Zlotowski apre allo spettatore. Si parte con l’idea di una dimensione extrasensoriale, legata alla morte, all’assenza e al rimpianto. Si prosegue innestando una riflessione sul cinema, sulla sua illusione, ma anche sulla sua sostanziale somiglianza con l’esperienza esoterica di cui sopra. Si aggiunge una dimensione di erotismo non sempre esplicito, ma forte anche sottotraccia. Si approda al dramma sociale dell’antisemitismo, quando l’inseguimento del senso della vita e della morte, che ha caratterizzato il percorso di tutti i personaggi, deve piegarsi all’annullamento della guerra.
L’autrice divide col cast il compito di affrontare l’impresa: soprattutto Natalie Portman, che conferma una presenza scenica magnetica, e ha scelto di persona Lily-Rose Depp (funzionale). Ruba però la scena Emmanuel Salinger, dolente e stralunato, poco divo rispetto al Louis Garrel qui in un ruolo minore, ma all’altezza della lucida alienazione che si richiede al suo personaggio.
Se però fosse sempre così semplice mescolare registri e tematiche, il panorama cinematografico sarebbe più vario: Planetarium è sicuramente un film che stimola l’attenzione dello spettatore, diviso tra la curiosità e il tentativo di decifrare i messaggi che la Zlotowski cerca di non spiegare mai troppo. Tanta attenzione però sul lungo termine stanca, perché non viene compensata da un coinvolgimento emotivo equivalente a quello razionale: si passa più tempo a riflettere su Planetarium che ad emozionarsi per i suoi protagonisti. Quando la sceneggiatura chiama a raccolta il dramma e le lacrime vere nel finale, qualcosa non funziona, perché la voglia di sfaccettare il film ha già preso il sopravvento su una comunicazione classica.
La tenerezza di Gianni Amelio
“La Tenerezza” narra una storia ambientata a Napoli, ma una Napoli lontana dagli scenari della malavita organizzata: stavolta le vicende hanno luogo fra le mura di una famiglia borghese, in un ambiente familiare in cui le gioie si uniscono a momenti di profondo sconforto e violenza, dove un padre vive con dei figli che purtroppo non ama.
I figli in questione sono due bambini, fratello e sorella, in costante conflitto tra loro, vittime di un clima familiare poco stabile, dove possono soltanto osservare ciò che accade, senza poter assolutamente reagire.
La vita che all’apparenza può sembrare felice, nasconde delle pieghe e delle sfaccettature di pura tragedia. Il dolore è tanto, ma la speranza è l’ultima a morire.
“La Tenerezza” è un film che ben rappresenta il continuo fluire di sentimenti, tra persone diverse, che sembra facciano di tutto per allontanarsi da qualsiasi forma di affetto. Abbiamo un padre che non ama i suoi figli, che vittime della freddezza familiare hanno un rapporto contrastante. Sentimenti che sfumano nel sorriso ma anche nella violenza.
Ma il titolo non è ingannevole, il regista Gianni Amelio ha dichiarato: “Io credo che il bisogno di tenerezza si abbia nei momenti di tragedia quando qualcuno è bombardato da tanti problemi: la tenerezza è un bisogno, è un bisogno darla ma soprattutto riceverla!”. Parole che riassumono il senso del film, che parla d’amore, di storie d’amore che si incrociano e che ha un cast ‘perfetto’, almeno così lo definisce lo stesso director.
Un film, questo, riconosciuto di interesse culturale, con il contributo economico del ministero dei beni e delle attività culturali del ‘turismo-direzione generale cinema’. L’idea di questa pellicola, che unisce insieme la componente drammatica e quella del giallo, è nata a Gianni Amelio dopo che gli è stato proposto un libro “Essere felice”, romanzo dell’autore partenopeo Lorenzo Marone
Sasha e il Polo Nord di Rémi Chayé
Vincitore del premio del pubblico al Festival di Annecy 2016
Presentato al Future Film Festival
Dopo i passaggi festivalieri, arriva nelle sale con la PFA il più che convincente esordio alla regia di Rémi Chayé. Il percorso artistico di Chayé, storyboarder e assistente alla regia di The Secret of Kells e La tela animata, si rispecchia perfettamente nelle scelte di character design, nella predominanza dei colori sulle linee, nella elevata valenza pittorica di molte tavole e nella qualità dello script di questa opera prima. Romanzo di formazione, avventura ed esplorazione, Sasha e il Polo Nord (Tout en haut du monde) è l’ennesima dimostrazione della qualità ed estrema vivacità del cinema d’animazione transalpino. L’animazione tradizionale è vivissima.
Sasha, una giovanissima aristocratica russa alla fine del XIX secolo, sogna il Grande Nord e si strugge per suo nonno Oloukine, un rinomato scienziato ed esploratore dell’Artico che non ha mai fatto ritorno dall’ultima esplorazione alla conquista del Polo Nord. Lui ha trasmesso la sua vocazione a Sasha che certo non sta soddisfacendo le aspettative dei genitori, che già hanno organizzato per lei le nozze. Sasha si ribella a questo destino e decide di raggiungere Oloukine verso il Grande Nord… [sinossi]
Ancora la Francia. Sasha e il Polo Nord, aka Tout en haut du monde/Long Way North, conferma la dinamicità ed elasticità produttiva e artistica dell’industria animata transalpina, qui alle prese con un’opera prima e con una coproduzione con la Danimarca. Un’opera prima che non casca dalle nuvole: il percorso artistico di Rémi Chayé, storyboarder e assistente alla regia degli imprescindibili The Secret of Kells e La tela animata, si rispecchia perfettamente nelle scelte di character design, nella predominanza dei colori sulle linee, nella elevata valenza pittorica di molte tavole e nella qualità dello script. Insomma, talento grafico, messa in scena e un raffinato gusto per la narrazione – letteratura per ragazzi, d’avventura e d’esplorazione che prende per mano lo spettatore e lo porta in giro per il mondo, come un Michele Strogoff per ragazzini e in gonnella [1].
Sasha e il Polo Nord è un gioiellino da difendere a spada tratta. Allo spirito avventuroso di pellicole come Le avventure di Zarafa – Giraffa giramondo, che gli sceneggiatori Claire Paoletti e Patricia Valeix rendono più compatto e maturo, Chayé aggiunge affascinanti scelte cromatiche ed estetiche. Si rintraccia, come detto, la predominanza dei colori sulle linee de La tela animata di Jean-François Laguionie, ma ci piace pensare e risalire all’abbacinante Fehérlófia (1981) dell’ungherese Marcell Jankovics: un’animazione che non rinuncia mai all’arte e alla narrazione, che rivendica le proprie radici culturali, produttive ed estetiche. Pur non spingendosi fino alle sperimentazioni visive di Jankovics, e abbracciando una chiarezza didascalica sia nello script che nelle immagini, Chayé mette in mostra un’animazione che non si preoccupa dei dettagli ma che deflagra nei campi lunghi, nei totali, nei paesaggi e nei volti tondeggianti e delicati dei giovani protagonisti.
Sasha e il Polo Nord non insegue il fotorealismo o un’impeccabile fluidità dei movimenti, ma cerca di riempire lo sguardo degli spettatori con i colori e i loro accostamenti. Sasha e il Polo Nord è animazione impressionista che si mette a servizio di una narrazione puskiniana: l’ipercromatismo, accompagnato da un comparto sonoro scarno ma efficace e da alcune sottili intuizioni di sceneggiatura (ad esempio, la mano di Sasha che accarezza il mappamondo, facendolo girare e prefigurando l’imminente avventura), nasce dal bianco e riesce a dare un senso compiuto a ogni singola tavola, a ogni passaggio narrativo e psicologico. Illuminante, per l’utilizzo del bianco e degli altri colori, la sequenza del treno che si allontana verso l’orizzonte, tra il verde dei prati, l’azzurro del cielo e le candide nuvole.
On the milky road – Sulla via lattea
di Emir Kusturica
MENZIONE SPECIALE , PREMIO SIGNIS E LEONCINO D’ORO AGISCUOLA ALLA 73. MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2016).
Tra realismo e di visionarietà, Emir Kusturica torna sulla guerra balcanica e dirige Monica Bellucci in una delle più efficaci interpretazioni della sua carriera.
Primavera in tempo di guerra in quella che fu la Jugoslavia. Un lattaio attraversa quotidianamente i campi di battaglia cavalcando il suo asino e sfuggendo al tiro incrociato dei fronti opposti. Nel villaggio in cui vive c’è una ragazza che lo vorrebbe sposare e che, nel frattempo, sta organizzando il matrimonio per il fratello eroe di guerra. Per far ciò ha fatto arrivare una donna di madre italiana e padre serbo che attrae immediatamente l’attenzione del lattaio. Ha inizio così una storia di passione che deve confrontarsi con la follia del conflitto armato.
“L’unica cosa che abbia un senso è amare qualcuno, come si può”. Questa frase, pronunciata da una Monica Bellucci in una delle più efficaci interpretazioni della sua ormai lunga carriera, ci dice come Kusturica, qui anche attore protagonista, torni a leggere il conflitto che ha insanguinato la sua patria sotto una nuova luce. Il suo è un cinema che si innerva da sempre su un mix di realismo e di visionarietà ma mai come in questa occasione il rapporto uomo-donna si è andato ad opporre alla devastazione causata dall’uomo armato. Il suo lattaio che caracolla con asino e ombrello (quasi novello Trinità) tra le pallottole è un innocente sopravvissuto a perdite cruente ma capace di ‘leggere’ la Natura. Perché qui gli animali (con in primo piano un falco pellegrino e un serpente) fanno da controcanto all’impazzimento degli uomini sin dalle prime inquadrature. Ci sono oche che sguazzano nel sangue di un maiale sgozzato così come ci saranno pecore chiamate al sacrificio o una gallina impazzita che rivaleggia con la propria immagine allo specchio.
Ci sono poi ‘loro’: un uomo e una donna che cercano di sfuggire a una realtà in cui anche la misurazione del tempo è divenuta assurda (c’è chi ha ai polsi due orologi mentre un altro orologio enorme fa di tutto tranne segnare l’ora). Il loro avvicinarsi ha origine da vite non facili che trovano una modalità di comunicazione che supera il contingente. Ecco allora che il testo ad epigrafe che apre il film: “Tratto da tre storie vere e da molta fantasia” trova attraverso i loro corpi una conferma. Perché si può essere certi che Kusturica abbia attinto a fatti realmente accaduti in quello che è stato uno dei più sanguinosi conflitti della storia recente. Così come si può avvertire quasi a pelle il suo bisogno di trasfigurarlo in immagini che consentano ai suoi protagonisti di andare ‘oltre’ l’orrore per cercare insieme una liberazione da ciò che non si può più sopportare. Non sono solo gli uccelli a volare in questo film che ci regala un finale che, come accadde per Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera di Kim Ki-Duk, è destinato a rimanere nella memoria.