7 MINUTI di M. Placido
L’azienda tessile Varazzi è in procinto di siglare l’accordo che la salverà dalla chiusura immediata. I partner francesi sono pronti a concludere, ma all’ultimo momento consegnano alle undici componenti del consiglio di fabbrica una lettera che chiede loro di sacrificare sette minuti di intervallo al giorno. Il consiglio è composto da nove operaie e un’impiegata, più una rappresentante sindacale, Bianca, dipendente della Varazzi da decenni.
Le componenti del consiglio sono uno spaccato della forza lavoro femminile contemporanea nel nostro Paese: c’è la ventenne neoassunta e la veterana con figlia incinta; c’è l’immigrata africana, quella albanese concupita dal proprietario della fabbrica, quella che prende botte dal marito e la semitossica. Anche l’impiegata è un’ex operaia trasferita in ufficio da quando un incidente sul lavoro l’ha lasciata su una sedia a rotelle. Questa galleria di personaggi denuncia la matrice teatrale di 7 minuti, testo scritto (anche per il grande schermo) da Stefano Massini (la sceneggiatura è cofirmata da Michele Placido e Toni Trupia), che cerca di concentrare in quel pungo di figure femminili quasi tutte le problematiche che affliggono le donne in Italia. La costruzione drammaturgica segue la falsariga de La parola ai giurati, classico del ’57 firmato (per la televisione) da Sidney Lumet di cui è stato realizzato un remake nel 2007 da Nikita Mikhalkov, 12. A Ottavia Piccolo, nei panni di Bianca, tocca il ruolo che fu di Henry Fonda, ovvero la voce della ragione che sa penetrare le coscienze di chi, reagendo di pancia, cerca invece la soluzione più immediata, come Angela, l’operaia napoletana con quattro figli cui dà la presenza “pesciarola” Maria Nazionale: ed è una scelta di casting azzeccata affidare quel ruolo a una cantante, perché la potente voce di Angela sembra voler costantemente sopraffare quella pacata di Bianca. L’altra cantante del cast è Fiorella Mannoia nei panni di Ornella, coetanea di Bianca e memore di un tempo in cui i diritti degli operai erano tutelati: la sua prova di attrice è notevole e inaspettata. Ambra Angiolini presta la sua incazzatura alla combattiva Greta e Violante Placido è un’insolita contabile dall’aspetto dimesso.
FREAKS di T. Browning
Un classico di genere, ritirato quasi subito dopo la prima dal boss della MGM che lo giudicò (dal suo punto di vista non aveva torto) troppo duro per i delicati stomaci degli spettatori del 1932. Browning usò veri nani e veri “mostri” (fra cui due fratelli siamesi) per questa horror story che molti giudicano il suo capolavoro. Protagonista è la bella di un circo, un’acrobata, che acconsente a sposare un nano. Poi lo avvelena per potersi mettere con l’uomo forzuto della compagnia. Ma gli altri nani se ne accorgono e la conciano per le feste (cioè la storpiano finché la bella non diventa anch’essa un mostro).
“Freaks”, il film che costò al suo regista il bando da Hollywood, si è guadagnato l’appellativo di film maledetto per la mezz’ora intera che sarebbe stata tagliata per volere dei produttori della Metro-Goldwyn-Mayers. L’impatto che ebbe sul pubblico alle prime proiezioni fu devastante: malori, proteste, accuse di sfruttamento delle menomazioni umane per fare del becero sensazionalismo. In verità quello che Browning voleva era palesare la normalità dell’universo degli anormali. Non c’è nessuna stranezza nel vedere i legami di amore e amicizia che si intrecciano tra i protagonisti del circo di “Freaks”. E tantomeno non vi è alcuna morbosità nel riprendere dei veri uomini e donne con le caratteristiche fisiche più diverse e varie. Questo, chiaro, il pubblico, ma anche la critica del 1932 certo non poteva capirlo pienamente; e la genialità dell’opera di Browning, che già nella prima parte della sua folgorante carriera aveva dimostrato di avere a cuore di mettere in scena proprio il pregiudizio generalizzato del pubblico, sta proprio in questo: fotografare ciò che è la realtà, la paura del diverso, del “malformato”.
KUBO E LA SPADA MAGICA di T. Knight
Kubo è un cantastorie. Di giorno al villaggio suona e canta le gesta di storie senza un finale, animate davanti al suo pubblico di strada tramite origami; di notte invece si nasconde da un nemico occulto che lo cerca per privarlo dell’unico occhio che gli rimane (l’altro è bendato): il nonno. Ultimo di una famiglia legata alla magia, vive con una madre che sembra aver perso ogni forza per lottare e che, quando il nonno li troverà, scompare nel tentativo di far scappare il figlio. Inizia così il viaggio di Kubo, assieme a uno scarafaggio gigante e una scimmia, alla ricerca di un elmo, un’armatura e una spada che insieme gli consentiranno di sconfiggere l’ingombrante nonno.
Mascherata, tradotta, celata e messa in forma di allegoria, c’è una storia di formazione e di abbandono del nido familiare dietro Kubo e La Spada Magica. E quanto più questo cartone animato in stop motion aggiunge strati che impediscano di scorgere davvero la sua natura, tanto più sembra caricarsi di un senso romantico e perduto. Più cioè si allontana dalla propria essenza (un ragazzo diventa un uomo emancipandosi dalla propria famiglia), più riesce a raccontare questo passaggio condendolo con un’epica presa direttamente dall’intimità inconfessabile di ognuno.
CAFE’ SOCIETY di W. Allen
New York, anni Trenta. Bobby Dorfman lascia la bottega del padre e la East Coast per la California, dove lo zio gestisce un’agenzia artistica e i capricci dei divi hollywoodiani. Seccato dall’irruzione del nipote e convinto della sua inettitudine, dopo averlo a lungo rinviato, lo riceve e lo assume come fattorino. Bobby, perduto a Beverly Hills e con la testa a New York, la ritrova davanti al sorriso di Vonnie, segretaria (e amante) dello zio. Per lui è subito amore, per lei no ma il tempo e il destino danno ragione al sentimento di Bobby che le propone di sposarlo e di traslocare con lui a New York. Ma il vento fa (di nuovo) il suo giro e Vonnie decide altrimenti. Rientrato nella sola città in cui riesce a pensarsi, Bobby dirige con charme il “Café Society”, night club sofisticato che diventa il punto di incontro del mondo che conta. Sposato, padre e uomo di successo, anni dopo riceve a sorpresa la visita di Vonnie. Con lo champagne, Bobby (ri)apre il cuore e si (ri)apre al dolce delirio dell’amore.
Commedia del piacere negato, Café Society è la cronaca di una storia d’amore mancata che ribadisce quello che per Woody Allen conta da sempre: il cinema, le donne, se stesso.
DOMANI di M. Laurent
In seguito alla pubblicazione di uno studio che annuncia la possibile scomparsa di una parte dell’umanità da qui al 2100, Cyril Dion e Mélanie Laurent intraprendono un viaggio intorno al mondo per scoprire cosa potrebbe provocare questa catastrofe, ma soprattutto come evitarla. Risultato: una sorprendente, contagiosa e ottimista spinta al cambiamento, a partire già da DOMANI.
La sconfinata vitalità del cinema documentario contemporaneo induce ad aspettarsi dal genere un lavoro di ricerca e di messa a fuoco sulla realtà che vada oltre il resoconto informativo, fino a farsi spaccato a 360°, presa di posizione, sguardo sul mondo e le sue molteplici prospettive. Anche Domani, documentario firmato da Cyril Dion e da Mélanie Laurent arrivato nelle sale italiane dopo l’enorme successo in Francia, coltiva l’ambizione non da poco di dar voce, in maniera al contempo consapevole e didattica, sfaccettata e particolaristica, alle problematiche più rilevanti che investono il pianeta in cui viviamo sotto il profilo sociale, politico ed economico, andando così a toccare svariati settori come l’agricoltura, l’urbanistica, l’energia, l’economia, la democrazia e l’istruzione.
Saranno presenti in sala STEFANO BIANCHI – presidente di AIAB VENETO (Associazione Italiana Agri coltura Biologica) e MASSIMO RENNO – presidente di AEres-Venezia per l’altraeconomia.