Le scuole superiori di Dolo, il gruppo Faive ed il Cinema Italia propongono
Le scuole superiori di Dolo, il gruppo Faive ed il Cinema Italia propongono
L’ATTESA
Una camera buia, silenziosa, stretta nella rigorosa simmetria dell’inquadratura, e una madre, devastata, sofferente come se qualcuno le avesse appena strappato il ventre, con forza. Tutto all’ombra di un Cristo in croce, nudo, inerme; un uomo, un figlio sacrificatosi per i peccati del mondo, che attende la Pasqua per ritrovare i vivi e consolarli.
Le immagini che segnano il debutto di Piero Messina nel cinema che conta sono istanti che non si dimenticano facilmente, che si insinuano nell’anima per abitarla a tempo indeterminato. Non perché aprono la strada a un soggetto incredibilmente originale, universale, anzi, si parla di elaborazione del lutto, di mancanze, di silenzi, temi abbastanza cari al grande schermo. Per capire bisogna affiancare i personaggi, entrare a passi lievi nella loro umanità, la loro essenza, e ritrovare nei loro occhi momenti di vita che noi stessi abbiamo vissuto o che potremmo vivere. Bisogna condividere con loro il dolore, l’assenza, l’attesa. Già, cos’è questa attesa che regala il titolo al film? Si attendono i momenti giusti, le telefonate, i ritorni, le partenze e gli arrivi, in un casale sperduto nelle campagne del ragusano, in Sicilia. Un non-luogo che per pochi giorni unisce due universi all’apparenza paralleli, quello di una madre che ha appena perso un figlio e quello di una ragazzina francese, timida e inesperta, che attende il ritorno dell’uomo che ama, e che non tornerà. A differenza del pubblico, che lo intuisce, lei ancora non lo sa, dunque è anche da spettatori che si è preda dell’attesa, del momento in cui ogni verità salterà al pettine. La sua presenza, nel frattempo, restituisce ad Anna – seppur idealmente – il figlio perduto; i vestiti del lutto vengono abbandonati in favore dei colori, i drappi neri sugli specchi vengono strappati via, il cibo riprende forma e sapore, prima della resurrezione, della celebrazione, della pace interiore.
Girato con un rigore stilistico assoluto, con un rispetto sacro nei confronti della geometria, dei corpi tagliati e dei simboli, L’Attesa incanta anche dal punto di vista visivo, del resto il segno lasciato dalle esperienze di This Must Be the Place e La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino è molto evidente nel regista siciliano. Chiudono il cerchio una Lou de Laâge di una bellezza disarmante, nelle sue spalle strette, le sue forme incantevoli e gli occhi di ghiaccio, e una Juliette Binoche gigantesca, da premio, china su un materassino gonfiabile a respirare l’anima di chi non c’è più. Ogni suo sguardo parla più delle sue parole, e fuoriesce dallo schermo sotto forma di pura emozione. Non è difficile ritrovare in lei lo spirito delle nostre stesse madri, che ci vorrebbero a casa sempre un giorno in più del possibile, che ci vorrebbero più vicini, più presenti, più complici. Capita invece di delegare tutto all’attesa, al domani, finché un giorno ci si risveglia e ci si accorge che il tempo è stato crudele, infame, e ogni possibilità di recuperare il terreno è sfumata. Recuperiamo tutto, adesso, finché ci è possibile.
LIFE
Jimmy e Dennis sono due giovani che si stanno affermando nei rispettivi mondi a cui ambiscono, il primo in quello del cinema e il secondo in quello della fotografia. Dennis, fotografo della famosa agenzia Magnum, rimane affascinato dalla fotogenia di Jimmy durante un loro fortuito incontro a una festa di Hollywood, e da allora fa di tutto per poter riuscire a lavorare ad un servizio fotografico destinato alla rivista Life proprio sull’attore, che da parte sua ne ricaverebbe una buona visibilità anche in vista dell’uscita del suo secondo film, La valle dell’Eden. Ma Jimmy è schivo e sfuggente, e si farà rincorrere da Los Angeles a New York fin nell’Indiana prima di concedersi all’obiettivo del testardo fotografo e realizzare insieme alcune delle fotografie più celebri che ancora oggi lo ricordano.
Dall’incontro nel 1955 tra Dennis Stock e James Dean è nato non solo un lavoro fotografico vero e sincero, di cui fanno parte alcune delle più note foto dell’attore scomparso solo pochi mesi dopo la pubblicazione, ma anche un’amicizia inattesa che si fa manifesto del cambiamento culturale che in quegli anni stava investendo le nuove generazioni. Da una parte un giovane che abbandona la certezza di una stabilità familiare in una piccola cittadina dell’Indiana per cercare di affermarsi artisticamente in una Hollywood affollata di talenti pronti a tutto pur di sfondare, dall’altra un altro ragazzo di appena 3 anni più grande con alle spalle già un matrimonio disastroso da cui è nato un figlio che non vede mai.
Quello che vediamo in Life è il James Dean alle porte della celebrità, che desidera ardentemente il ruolo in Gioventù bruciata e ricerca la fama senza voler scendere a compromessi, essendo sé stesso e basta, ribelle e testardo, ma si scontra con il volere di mamma Hollywood che ne vuole controllare aspetti della vita, del carattere, delle relazioni. Emblematica in questo senso la scena della registrazione dell’intervista, in cui Dean non si risparmia né contiene su pareri e opinioni con aria strafottente, e che è però prontamente recuperata e distrutta dalla Warner.
Robert Pattinson, invece, con questo ruolo passa freddamente dall’altra parte, da attore bersagliato nella vita reale dai paparazzi a fotografo che insegue “la sua musa”, dall’essere il voyeuristico oggetto della desiderio a voyeur stesso. E come un bambino che ottiene un giocattolo tanto desiderato, quando Stock finalmente riesce a vedere pubblicate le sue foto su Life, lascia solo Dean, che invece insieme a lui, al quale ha dato fiducia e che finalmente lo ha conquistato, vorrebbe fuggire dal mondo dei riflettori che prima ha tanto cercato e che ora inizia a perseguitarlo. Alla fine il suo sarà un viaggio in solitaria senza ritorno. Uno sguardo, quello di DeHaan nella scena del loro ultimo incontro, con cui si fa quasi perdonare alcune pecche della sua interpretazione.
Life come vita, intesa nel senso di quella scintilla elusiva ed essenziale che alcune foto, quelle davvero indimenticabili, riescono a cogliere leggendo l’anima di una persona.
IL BAMBINO CHE SCOPRI’ IL MONDO
Un bambino vive con i suoi genitori in campagna e passa le giornate in compagnia di ciò che gli offre la natura che lo circonda: pesci, alberi, uccelli e nuvole, tutto diventa pretesto per un gioco e una risata, briglie sciolte alla fantasia. Ma un giorno il padre parte per la città in cerca di lavoro. E il bambino, a cui il genitore ha lasciato nel cuore la melodia indimenticabile che gli suonava sempre, mette in valigia una foto della sua famiglia e decide di seguirne le tracce. Si troverà in un mondo a lui completamente ignoto, fatto di campi di cotone a perdita d’occhio, fabbriche cupe, porti immensi e città sovraffollate. Affronterà imprevisti e pericoli per terra e per mare, crescerà, ma qualcosa di quel bambino che si tuffava in mezzo alle nuvole in lui rimarrà sempre.
Il bambino che scoprì il mondo, che pochi tratti stilizzati bastano a definire, non ha nome né voce, crede come tutti i bambini che ogni cosa sia possibile e persegue il suo scopo – ritrovare suo padre – con un’energia e una determinazione incrollabili. L’uso di differenti tecniche di animazione è intimamente legata al soggetto del film: la storia di un bambino che il regista immagina leggero e libero da condizionamenti e pregiudizi.
Questo bambino, dichiara il regista, rappresenta un po’ ognuno di noi: possiamo essere turbati e delusi dal mondo che ci circonda, ma una parte infantile, di sogno e speranza continuano a vivere dentro di noi anche una volta diventati adulti.
La rassegna “Incontriamoci! Un viaggio intorno al mondo” comprende una serie di opere che trattano, con uno sguardo a misura di bambino, un tema importante e spinto con urgenza dall’attualità storico e sociale che stiamo vivendo: l’intercultura (come incontro con gli altri).
Sempre più spesso bambini e ragazzi sono esposti a messaggi mediatici riguardanti persone portatrici di culture diverse e non di rado le incrociano nella propria vita oppure ci convivono giorno per giorno. L’incontro con l’altro apre la relazione a un soggetto che possiede e custodisce un’altra identità e al quale noi riconosciamo pari dignità. L’intercultura riafferma la volontà di un incontro che, da un lato assume le differenze individuali e culturali come una ricchezza, e dall’altro accoglie le radici, le tradizioni, i vissuti, i segni e i significati che ci stimolano a nuovi apprendimenti e che ci fanno sentire partecipi della complessità umana.
Il cinema ha specifiche potenzialità di coinvolgimento degli spettatori, soprattutto i più giovani, in tematiche legate all’intercultura e per favorire in loro un pensiero riflessivo su di esse.
Quando si accende lo schermo del cinema infatti possiamo viaggiare nel tempo e nello spazio, incontrare personaggi sconosciuti e raggiungere mondi lontani o fantastici, conoscere altri modi di vivere e altri modi di pensare.
I film proposti si riferiscono alla tematica interculturale declinata sia nella dimensione dell’incontro tra persone di culture diverse e la loro integrazione, sia come conseguenza di un viaggio che forma e crea una nuova persona.
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SANGUE DEL MIO SANGUE
Marco Bellocchio, con “Sangue del mio sangue”, sceglie un cast importante (Roberto Herlitzka, Pier Giorgio Bellocchio, Lydiya Liberman, Fausto Russo Alesi, Alba Rohrwacher, Federica Fracassi e Filippo Timi) per raccontare di Federico, giovane d’armi che viene sedotto, come il suo gemello prete, da suor Benedetta, condannata a essere murata viva. Il film mostra un passato e un presente ambientato a Bobbio, centro dell’opera del regista.
Girato in tempi diversi, eppure tutto compatto, tutto in un punto. In uno spazio e un luogo dell’anima prezioso e blindato che poco a poco si schiude e la famiglia intera – la famiglia, quella di sangue e quella di lavoro – arriva in sostegno, con amore e dedizione, ad aprire la scatola nera dei segreti dell’anima. Il doppio, il legame di sangue: di questo parla fin dal titolo.
A tre anni da “Bella addormentata” Marco Bellocchio presenta il suo nuovo film, “Sangue del mio sangue” in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Anche Marco Bellocchio aveva un fratello gemello. Aveva cercato di raccontare questa storia in Gli occhi, la bocca senza, allora, riuscirci davvero. La lascia libera qui. Racconta: “Mi hanno chiamato un giorno per dirmi: c’è stato un incidente. Ero a Roma, molto distratto dal lavoro. Sono partito, e già in viaggio sapevo. Suicidio. I gemelli sentono. Però ancora oggi non riesco a spiegarmi perché, invece, non ho sentito. Intendo prima, quando ero in tempo. Perché non ho visto arrivare la follia, qual è l’angolo cieco delle cose, perché non ho capito. Lui era molto diverso da me: era biondo, era malinconico. Ma era il mio gemello. Avrei dovuto sapere, sentire. Invece”.
Però poi il cinema è cinema, non solo un fatto personale. Le immagini e i fantasmi sono spettacolo per chi guarda, a ciascuno parlano di sé. E’ straordinaria, la parte secentesca del film, ed è grottesca e per così dire politica quella che dice del presente. E non è vero che il tempo si può fermare. Il tempo non si ferma. Caso mai torna su se stesso.
L’ATTESA
Una camera buia, silenziosa, stretta nella rigorosa simmetria dell’inquadratura, e una madre, devastata, sofferente come se qualcuno le avesse appena strappato il ventre, con forza. Tutto all’ombra di un Cristo in croce, nudo, inerme; un uomo, un figlio sacrificatosi per i peccati del mondo, che attende la Pasqua per ritrovare i vivi e consolarli.
Le immagini che segnano il debutto di Piero Messina nel cinema che conta sono istanti che non si dimenticano facilmente, che si insinuano nell’anima per abitarla a tempo indeterminato. Non perché aprono la strada a un soggetto incredibilmente originale, universale, anzi, si parla di elaborazione del lutto, di mancanze, di silenzi, temi abbastanza cari al grande schermo. Per capire bisogna affiancare i personaggi, entrare a passi lievi nella loro umanità, la loro essenza, e ritrovare nei loro occhi momenti di vita che noi stessi abbiamo vissuto o che potremmo vivere. Bisogna condividere con loro il dolore, l’assenza, l’attesa. Già, cos’è questa attesa che regala il titolo al film? Si attendono i momenti giusti, le telefonate, i ritorni, le partenze e gli arrivi, in un casale sperduto nelle campagne del ragusano, in Sicilia. Un non-luogo che per pochi giorni unisce due universi all’apparenza paralleli, quello di una madre che ha appena perso un figlio e quello di una ragazzina francese, timida e inesperta, che attende il ritorno dell’uomo che ama, e che non tornerà. A differenza del pubblico, che lo intuisce, lei ancora non lo sa, dunque è anche da spettatori che si è preda dell’attesa, del momento in cui ogni verità salterà al pettine. La sua presenza, nel frattempo, restituisce ad Anna – seppur idealmente – il figlio perduto; i vestiti del lutto vengono abbandonati in favore dei colori, i drappi neri sugli specchi vengono strappati via, il cibo riprende forma e sapore, prima della resurrezione, della celebrazione, della pace interiore.
Girato con un rigore stilistico assoluto, con un rispetto sacro nei confronti della geometria, dei corpi tagliati e dei simboli, L’Attesa incanta anche dal punto di vista visivo, del resto il segno lasciato dalle esperienze di This Must Be the Place e La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino è molto evidente nel regista siciliano. Chiudono il cerchio una Lou de Laâge di una bellezza disarmante, nelle sue spalle strette, le sue forme incantevoli e gli occhi di ghiaccio, e una Juliette Binoche gigantesca, da premio, china su un materassino gonfiabile a respirare l’anima di chi non c’è più. Ogni suo sguardo parla più delle sue parole, e fuoriesce dallo schermo sotto forma di pura emozione. Non è difficile ritrovare in lei lo spirito delle nostre stesse madri, che ci vorrebbero a casa sempre un giorno in più del possibile, che ci vorrebbero più vicini, più presenti, più complici. Capita invece di delegare tutto all’attesa, al domani, finché un giorno ci si risveglia e ci si accorge che il tempo è stato crudele, infame, e ogni possibilità di recuperare il terreno è sfumata. Recuperiamo tutto, adesso, finché ci è possibile.
RITORNO ALLA VITA
THE PROGRAM
Marra, le sue storie spesso nascono in forma di documentario. Anche in questo caso?
martedì 06 ottobre ore 21 apertura cineforum ottobre 2015 -gennaio 2016
anteprima del film I SOGNI DEL LAGO SALATO di Andrea Segre
(VENEZIA 72 – Giornate degli Autori) – sarà presente in sala il regista
il film sarà proiettato anche mercoledì 07 e venerdì 09 ottobre alle ore 21
http://www.zalab.org/progetti-it/115/#.VfsKrdLtlBd