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Lourdes – 14 marzo – ore 21 – Cinema Italia
Il Cinema Italia di Dolo assieme a i Teatri del Sacro, Federgat, Acec, AcecTriveneta,
Chiesa di Padova e Attimo di Pace propongo, durante il periodo di quaresima,
uno spettacolo teatrale dal titolo
LOURDES
(spettacolo vincitore dei Teatri del Sacro 2015).
La rappresentazione avverà il giorno 14 marzo 2016 – ore 21 – ingresso unico € 7.
Dall’omonimo romanzo d’esordio di Rosa Matteucci (Adelphi, 1998), lo spettacolo dà vita a un divertente carnevale di personaggi, ciascuno con le proprie aspettative e speranze, tutti in viaggio verso Lourdes, tutti in attesa di un miracolo.
Il linguaggio misto di aulico e dialettale, i numerosi coprotagonisti o anche piccole apparizioni, coralmente disegnano un’umanità così disperata da sconfinare nella più grande comicità. E’ una sorta di mistero buffo contemporaneo, decisamente connotato in senso grottesco che, nell’interpretazione di Andrea Cosentino, si apre a una spettacolarizzazione al contempo popolare e virtuosistica.
Lo spettacolo traccia una strada sghemba e irregolare verso quello che è tutti gli effetti un abbandono alla fede e dunque una conversione.
link di riferimento:
http://www.unattimodipace.it/
http://www.iteatridelsacro.it/spettacolo/lourdes/
Il figlio di Saul – oscar miglior film straniero 2106
Programmazione Cinema Italia dal 29-02 al 06-03
mercoledì 02 marzo ore 17: PERFETTI SCONOSCIUTI – ingresso € 4
mercoledì 02 marzo ore 19 – 21: IL FIGLIO DI SAUL – ingresso € 5
giovedì 03 marzo ore 18: IL FIGLIO DI SAUL – ingresso € 4
giovedì 03 marzo ore 20.30: IL GRANDE DITTATORE – ingresso € 5
Programmazione Cinema Italia dal 22-02 al 28-02
mercoledì 24 febbraio ore 16.30 (€ 4) – 21 (€ 5): IL LABIRINTO DEL SILENZIO
mercoledì 24 febbraio ore 19: PERFETTI SCONOSCIUTI
sabato 27 febbraio ore 18.30: ZOOTROPOLIS
sabato 27 febbraio ore 21: PERFETTI SCONOSCIUTI
domenica 28 febbraio ore 16.30: ZOOTROPOLIS
domenica 28 febbraio ore 18.30 – 21: PERFETTI SCONOSCIUTI
Il labirinto del silenzio
Francoforte, 1958. Johann Radmann è un giovane procuratore deciso a fare sempre quello che è giusto. Un principio, il suo, autografato sulla foto del genitore, scomparso alla fine della Seconda Guerra Mondiale e di cui conserva un ricordo eroico. Ma i padri della nazione, quella precipitata all’inferno da Hitler, a guardarli bene sono più mostri che eroi e Johann dovrà presto affrontarli.
La Shoah ha marcato il secolo scorso con un impronta unica e tragica, influenzando in maniera decisiva i nostri modelli di rappresentazione e particolarmente il cinema. Questa influenza continua a interrogare autori, critici ed esperti e a produrre opere che aiutano a convivere col passato, un passato che non può e non deve passare. E di passato e della sua rielaborazione dice (molto bene) Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli, regista italiano naturalizzato tedesco, che assume il cinema come metodo d’investigazione e approccia il soggetto con l’eloquio lento del diritto.
Con Il labirinto del silenzio assistiamo precisamente a uno slittamento dal piano della visione a quello dell’ascolto, dalla potenza delle immagini a quella delle parole.
Perfetti sconosciuti
Quante coppie si sfascerebbero se uno dei due guardasse nel cellulare dell’altro? È questa la premessa narrativa dietro la storia di un gruppo di amici di lunga data che si incontrano per una cena destinata a trasformarsi in un gioco al massacro. E la parola gioco è forse la più importante di tutte, perché è proprio l’utilizzo “ludico” dei nuovi “facilitatori di comunicazione” – chat, whatsapp, mail, sms, selfie, app, t9, skype, social – a svelarne la natura più pericolosa: la superficialità con cui (quasi) tutti affidano i propri segreti a quella scatola nera che è il proprio smartphone (o tablet, o pc) credendosi moderni e pensando di non andare incontro a conseguenze, o peggio ancora, flirtando con quelle conseguenze per rendere tutto più eccitante. I “perfetti sconosciuti” di Genovese in realtà si conoscono da una vita, si reggono il gioco a vicenda e fanno fin da piccoli il gioco della verità, ben sapendo che di divertente in certi esperimenti c’è ben poco. E si ostinano a non capire che è la protezione dell’altro, anche da tutto questo, a riempire la vita di senso.
Paolo Genovese affronta di petto il modo in cui l’allargarsi dei cerchi nell’acqua di questi “giochi” finisca per rivelare la “frangibilità” di tutti: e la scelta stessa di questo vocabolo al limite del neologismo, assai legato alla delicatezza strutturale di strumenti così poco affidabili e per loro stessa natura caduchi come i nuovi media, indica la serietà con cui il team degli sceneggiatori ha lavorato su un argomento che definire spinoso è poco, visto che oggi riguarda (quasi) tutti. Per una volta il numero degli sceneggiatori (cinque in questo caso, fra cui lo stesso Genovese, senza contare l’intervento importante degli attori che si sono cuciti addosso i rispettivi dialoghi) non denota caos e debolezza strutturale, ma sforzo corale per raccontare una storia che è intrinsecamente fatta di frammenti (verrebbe da dire di bit, byte e pixel), corsa ad aggiungere esempi sempre più calzanti tratti dal reale.
Zootropolis
Il mondo animale è cambiato: non è più diviso in due fra docili prede e feroci predatori, ma armoniosamente coabitato da entrambi. Judy è una coniglietta dalle grandi ambizioni che sogna di diventare poliziotta, poiché le è stato insegnato che tutto è possibile in questo nuovo mondo. Nick è una volpe che vive di espedienti nella capitale, Zootropolis, dove Judy, dopo un’estenuante training in accademia, approda come ausiliaria del traffico. Toccherà a loro, inaspettatamente uniti, risolvere il mistero dei 14 animali scomparsi che tutta la città sta cercando e sventare i piani di chi vuole impossessarsi del potere locale, secondo l’atavico principio dividi et impera.
Zootropolis, cartone Disney supervisionato dall’onnipotente John Lasseter, affronta di petto la tematica più attuale di tutte: l’uso della paura come strumento di governo. E va a toccare un altro degli argomenti più sensibili in ogni epoca, ovvero l’esistenza (o meno) di una predisposizione biologia al crimine per alcune razze e alcune etnie. Ma si spinge anche oltre, andando ad analizzare il rapporto fra massa ed élite, nonché l’opportunità (o meno) di sopprimere la natura selvaggia e istintiva sacrificandola all’ordine sociale, flirtando con l’eterno dilemma se nella formazione degli individui, e delle società, conti maggiormente la natura o la cultura.
In realtà il discorso portante è quello dell’autodeterminazione a dispetto della propria limitata dotazione di base: un discorso che, da Monsters & Co a Planes a Turbo, attraversa molta animazione recente. È la filosofia “Yes you can” che ha portato alla presidenza americana un afroamericano e che sta alle radici del (nuovo) sogno americano. Il corollario di questa filosofia è l’ostinazione “ottusa” di Judy a “non mollare mai”, perché nessuno può dirle ciò che può essere e non essere, ciò che può e non può fare.
Programmazione Cinema Italia dal 15-02 al 21-02
mercoledì 17 febbraio ore 18.15: L’ABBIAMO FATTA GROSSA – ingresso € 4
mercoledì 17 febbraio ore 20.45: THE HATEFUL EIGHT
sabato 20 febbraio ore 18.30: IL VIAGGIO DI NORM – ingresso € 5
sabato 20 febbraio ore 21: THE HATEFUL EIGHT
domenica 21 febbraio ore 15.30: IL VIAGGIO DI NORM – ingresso € 5
domenica 21 febbraio ore 17.30: THE HATEFUL EIGHT
domenica 21 febbraio ore 21: THE HATEFUL EIGHT– ingresso € 5
L’abbiamo fatta grossa
Definibile come una sorta di commedia noir, il nuovo film di Verdone è un perfetto connubio di suspense e risate. Prima collaborazione di Verdone con Albanese, il regista sostiene che sia stato certamente il miglior attore e compagno che abbia avuto nella sua carriera, questo a dimostrazione della grande affinità ed amicizia che si è creata tra i due e che fa pensare ad una nuova coppia comica all’interno della commedia italiana che va ad aggiungersi alle tante altre consolidate, o ormai scoppiate, che tuttavia hanno fatto la storia della nostra tradizione comica.
Insieme Carlo e Antonio promettono grandi cose, il lavoro è stato fatto in modo tale che risultasse una sorta di equità nelle parti, senza scavalcamenti. Una recitazione perfettamente curata, così come i dialoghi, scritti dal regista in collaborazione con Pasquale Plastino e Massimo Gaudioso. Anche le immagini sono particolarmente dettagliate, grazie all’ottimo lavoro di Arnaldo Catinari il quale usa due macchine da presa per ogni inquadratura al fine di ottenere sempre quella migliore. Verdone ha voluto scegliere come scenario del suo film i luoghi di una Roma poco battuti dal mondo del cinema, come ad esempio il quartiere Castrense, il Nomentano, Monteverde vecchio e il Caffè Tevere, che come ricorda Verdone in conferenza stampa conserva l’antichità della capitale degli anni ’50, sul quale infatti c’è anche il murales di Pasolini che tiene in braccio Pasolini morto, così da ricordare in qualche modo il contributo cinematografico di quei grandi autori del passato.
Proprio in questo bar lavora Lena, interpretata da Anna Kasyan, colei che sarà la fiamma di Arturo. La nota cantante lirica armena per la prima volta esordisce sullo schermo rivelandosi una gradita sorpresa per la comicità che porta sulla scena. Altri membri del cast che ricoprono ruoli minori ma non insignificanti sono Clotilde Sabatino nei panni di Carla, moglie di Yuri, Virginia Da Brescia che interpreta la Zia Elide, altra figura che fa da ornamento comico nel film, e Massimo Popolizio che incarnerà la figura del nemico, non solo dei protagonisti, ma oserei dire, della società in generale.
Rispetto ai film precedenti si può anche notare, per stessa ammissione del regista, un pizzico di volgarità in più rispetto ai canoni di Verdone. C’è chi sostiene che sia per ottenere una risata facile, ma probabilmente il regista ha voluto semplicemente adattarsi ai tempi risultando più realista e spontaneo, in quanto la comicità dell’intero film nasce dagli equivoci accuratamente pensati e messi in scena e dall’eccezionale gestualità ed interpretazione degli attori.
Per quanto riguarda il montaggio la maggior parte del film è stato costruito mettendo insieme i primi “ciak”, considerati migliori di tutti gli altri, massimo due o tre per scena, proprio perché più spontanei e realistici. Divertimento e suspense si uniscono ad un pizzico di cultura, quando viene recitato, alla fine, un pezzo del monologo di Shakespeare tratto dal Macbeth, capolavoro recentemente oggetto di un film di assoluto successo a livello internazionale.
Il teatro è spesso presente nel film, il quale si apre appunto con una scena teatrale di Yuri che dimentica le battute mandando a monte la performance, e la grandiosità della recitazione degli attori si nota anche e sopratutto nella differenza riscontrabile quando essi sono sul palcoscenico, dove spicca l’enfasi tipica del teatro, rispetto al realismo che, invece, li accompagna nelle restanti scene del film.
Essendo una commedia ci si aspetterebbe un happy ending che, però, forse tale film non soddisfa pienamente. La sorpresa sta infatti nell’assistere ad un finale di denuncia sociale, in quello che sembrava un film favolistico e strutturato puramente per ridere. Se infatti i nostri cari protagonisti non riescono ad uscire dal guaio in cui si sono infilati, essi quantomeno si prenderanno una piccola soddisfazione nei confronti di colui che dovrebbe essere al loro posto, e che invece rappresenta nella maniera più ipocrita “il potere“.
Un piccolo gesto che sarà anche una minima e forse ridicola “rivincita“, ma è tutto quello che è nelle loro possibilità e non si astengono dal farlo. Il film si conclude con una frase significativa, che fa capire come Verdone non si sia fatto esente dal rendere la sua commedia un piccolo veicolo di denuncia sociale, così come lo sono stati i suoi film precedenti: “fatti e personaggi di questo film sono immaginari, ma vera è la realtà che li produce“.
The hateful eight
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Variety – Si tratta di un giallo che deve molto tanto ad Agatha Christie quanto ad Anthony Mann. Sebbene Tarantino giochi con molti dei tropi dei classici film western sulla frontiera senza legge, è discutibile il fatto che questo mistero deliziosamente verboso si qualifichi come western vero e proprio. Sarebbe da considerare più nel genere dei film Sudisti contro Nordisti, visto quanta tensione razziale contiene un avamposto altrimenti neutrale. […] Gli spargimenti di sangue e l’eccessiva lunghezza piaceranno unicamente ai cinefili.
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THR – Molti di noi sono cresciuti pensando che i cowboy fossero uomini di poche parole, ma Quentin Tarantino ha deciso di dimostrare l’opposto, con un western di tre ore che risulta ventoso sia all’esterno che all’interno. Non c’è assolutamente dubbio su chi abbia scritto questi dialoghi elaborati, pungenti, volgari e spesso divertenti, declamati brillantemente da un buon cast, né su chi abbia inscenato un costante bagno di sangue che finisce per diventare una vera pozza nella parte finale. […] Questo film sembra uno strano mix tra Ombre Rosse di John Ford, Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie e No Exit di Jean-Paul Sartre, con dialoghi che tuttavia ricordano la lunghezza di quelli di The Iceman Cometh di Eugene O’Neill.
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The Wrap – Quando pensi a Tarantino che gira un Western in 70mm pensi a incredibili inquadrature di cowboy e bestiame sotto un grande cielo e la campagna, piuttosto che un film decisamente intimo girato all’interno di una stanza. C’è un vero bagno di sangue sullo schermo, questo è certo, e Tarantino gode ancora nel mettere in scena e discutere tematiche razziali di questo Paese, ma The Hateful Eight è meno un film alla Sergio Leone e più uno alla Agatha Christie. Se siete il tipo di spettatore che non ha apprezzato le sequenze ricche di dialoghi di A Prova di Morte o Le Iene, troverete che questo film contiene troppi dialoghi e troppa poca azione per una durata di tre ore.
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EW – Come fan di praticamente quasi tutti i film di Quentin Tarantino, mi sono sentito – per la prima volta – vicino alla delusione. Al loro meglio, i suoi film davano la sensazione stordente che “ci fosse troppo” – che c’erano troppe idee ispirate che vibravano nel suo cervello di celluloide, e che queste ci lasciassero sopraffatti. Ma questo film non ha abbastanza idee. Ambientato quasi interamente in un saloon immerso in una bufera di neve, il film ha una storia così modesta che non giustifica le quasi tre ore di durata (inclusa una overture e un intervallo), o l’uso della proiezione in 70mm. È claustrofobico sia narrativamente che visivamente.
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Screen Crush – Il film è bello e odioso allo stesso tempo, divertente e sconvolgente, e occasionalmente riflessivo; una volta completamente occupato, il locale di Minnie diventa una sorta di microcosmo Americano, che nella visione ostinata di Tarantino è un melting pot che finisce per scottare tutti. Non ci si può fidare di chi ha il potere, né di chi viene protetto da questi. Si può cercare di togliere le pistole alla gente, ma la gente ne troverà sempre di nuove. E quando tutto diventa più calmo, ciò che resta è il rumore della bufera e della pellicola nel proiettore.
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The Guardian – C’è un po’ di Sergio Leone e i classici western pulp di Elmore Leonard; un grande dramma in un luogo piccolo, come una versione alla Sam Peckinpah di un Harold Pinter pieno di parolacce. Ma questo film è talmente particolare che non potrebbe che essere di Tarantino. Il dialogo così ricco di inventiva è ciò che lo fa procedere: la quintessenza dell’America. Thriller è una etichetta generica che ormai ha perso la sua forza. Ma The Hateful Eight riesce a essere un vero thriller.
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Indiewire – Non importa quanto possano essere intense le scene singole, il film viene spesso ostacolato dalla stessa fiducia di Tarantino nel materiale originale. Per ogni sequenza avvincente c’è un brusco sviluppo o una frase buttata lì. Il comportamento cruento o le svolte drastiche finiscono per offuscare le sottigliezze registiche di Tarantino. L’eccessiva violenza nelle scene conclusive travolge le ramificazioni più profonde di questo film, e ne reduce l’appeal, trasformando un complesso ritratto degli atteggiamenti in quello del furore. L’inquadratura finale risulta uno dei momenti più cinici della carriera di Tarantino.