Programmazione Cinema Italia dal 14-03 al 19-03

Moonlight di  B. Jenkins
Oscar 2017 – miglior film – miglior sceneggiatura non originale –
    miglior attore non protagonista
Da quando, a partire dall’inizio del nuovo millennio, il cinema afroamericano ha cominciato a presidiare in pianta stabile la programmazione del circuito ufficiale, la preoccupazione dei suoi esponenti più importanti e celebrati è stata quella di preservarne il vitalismo che in larga parte coincideva con l’orgoglio di razza e i richiami alle proprie origini presenti nei lavori di registi come Spike Lee, John Singleton e Mario Van Peebles, che, seppur con risultati tra loro non paragonabili, possiamo oggi considerare i precursori di questo movimento. Tutt’altro che scontate, le preoccupazioni del regista di “Fai la cosa giusta” si riferivano soprattutto al rischio di sudditanza derivata dalla volontà di farsi accettare dall’establishment come in parte è avvenuto con il fiorire di un filone più commerciale perfettamente sovrapponibile alla produzioni di genere (soprattutto commedie) hollywoodiane. La Festa del cinema di Roma prova a dare un contributo alla discussione animandola con la presenza di due titoli come “The Birth of the Nation” di Nate Parker e soprattutto di “Moonlight” diretto da Barry Jenkins, destinati ad animare il dibattito. E se il film di Parker, di cui parliamo in altra sede, si inserisce nella maniera più classica nel filone dei titoli che rileggono la storia per denunciare gli orrori della schiavitù, quello di Jenkins ha le carte in regola per figurare tra i titoli capaci di segnare uno scarto rispetto a ciò che l’ha preceduto.
La trama, divisa in tre atti, ognuno dei quali corrispondenti a una diversa fase della vita del protagonista (infanzia, adolescenza ed età adulta), ci propone uno degli scenari più tipici rappresentato dal ghetto nero (di Miami) in cui, tra violenza, emarginazione e degrado sociale, vive il giovane Chiron, che trova conforto nell’amicizia con il boss del quartiere e la sua compagna, presso i quali si rifugia per supplire all’assenza della madre tossicodipendente e per trovare un’alternativa al bullismo dei compagni di scuola.
Dalla tradizione non si discosta neanche l’iconografia della fauna sociale regolata da una legge della strada uguale a quella che faceva da sfondo alle storie di “Boys on the Hood” e “Training Days”, solo per citare due dei lungometraggi più emblematici, né quella urbanistica, dominata dal degrado e dalla decadente fatiscenza del quartiere natale. Ad essere diversi, però, sono la sensibilità del regista e il suo punto di vista sulle vite dei personaggi. Jenkins, infatti, non rinuncia ai temi della droga, della violenza e della discriminazione sociale, ma li filtra attraverso un intimismo che serve alla storia per mettere in scena una formazione esistenziale segnata dalla diversità sessuale, che Chiron scoprirà innamorandosi dell’amico del cuore. In questa maniera il modello del gangsta movie viene svuotato degli stilemi tipici del genere per essere riempito da una poetica rivolta a trasfigurare i turbamenti dell’anima e le ragioni del cuore; con la dicotomia tra realtà e apparenza enfatizzata dalla trasformazione fisica e caratteriale di Chiron, uscito dal carcere trasformato nel corpo e nello spirito per difendersi dal peso delle antiche fragilità.
Tratto da “Moonlight Black Boys Look Blue”, opera teatrale di Tarell Alvin McCraney, il film di Jenkins tradisce la sua matrice con immagini che non si limitano ad accompagnare la narrazione ma che si incaricano di inventarla, quando la vicenda riflette sulla condizione umana del protagonista e sulle molte rinascite (familiare, sessuale, sociale) della sua esistenza, ogni volta associate alla presenza dell’acqua, elemento psicanalitico destinato a fungere da fonte battesimale nella sequenza del bagno con Juan, che suggella la responsabilità genitoriale assunta dall’uomo nei confronti del suo piccolo amico.
Sei vie per Santiago di  L.B. Smith (film sottotitolato in italiano)
serata evento, ospiti in sala persone che hanno percorso il cammino
Wayne ha 65 anni, ha perso da poco la moglie. Cammina con Jack, 73 anni, il prete episcopale che ha celebrato il funerale. Misa è danese, sportiva, competitiva. Pensava che avrebbe voluto camminare da sola, ma poi ha incontrato il canadese William, che ha il suo stesso passo veloce, e non si sono più seprati. Annie viene da Los Angeles, il ginocchio le fa male, la fatica la fa piangere, ma smettere sarebbe ancora più doloroso. E poi ci sono Sam, dal Brasile, in piena crisi esistenziale, Tomas, che non sapeva se fare kite-surfing o intraprendere il cammino, Tatiana, di 26 anni, fervente religiosa, con il fratello ateo e il figlio Alexis, che di anni ne ha 3, ed è il più giovane della compagnia.
Il cammino di Santiago di Compostela è lungo quasi 800 kilometri e attraversa il Nord della Spagna per terminare nell’Oceano a Finisterre. Non è un’impresa semplice, eppure sono secoli che le genti di ogni dove lo percorrono. Molti partono con una domanda nel cuore, perché in quello spazio e in quel tempo, immersi nella natura e segnati dalla fatica ma anche dall’emozione, il confronto con se stessi è inevitabile e spesso illuminante. La regista lo ha fatto nel 2008, dopodiché, al ritorno a casa, la stessa “chiamata” che l’aveva messa sulla strada spagnola la prima volta, l’ha indotta a tornare per documentare il pellegrinaggio di altre persone. Il suo approccio è profondamente umanistico: il paesaggio ha ovviamente il suo spazio, ma non è alla sua contemplazione che si dedica il documentario. Allo stesso modo, la geografia del percorso, la pittoresca burocrazia dei timbri, il cibo e le messe, finiscono inevitabilmente nelle riprese di Lydia B. Smith ma non viene concesso loro uno spazio autonomo. Al centro, dall’inizio alla fine, ci sono le persone (le sei che ha scelto al montaggio, dopo averne seguite più del doppio per un totale di 300 ore di girato).
Piove, fa freddo, oppure il sole brucia in testa e sulle spalle, le vesciche sono causa di dolori atroci, la febbre può allettare per un po’, ma ogni giorno è diverso, ogni tratto è diverso, e questo cambiamento, di sfondo e di umore è in fondo una metafora della vita, e si va avanti nonostante tutto, sperimentando difficoltà e gioie a fasi alterne, in vista della ricompensa finale, in autostima e significato.
Dal film della Smith emerge bene un piccolo paradosso: quello che s’intraprende, anche se non sempre in solitaria, come un viaggio individuale, alla ricerca di sé, della risposta che probabilmente abbiamo già dentro ma dietro una nebbia troppo fitta per riconoscerla, si trasforma quasi sempre in un’esperienza di condivisione e di collettività. Il Cammino, sembra dire il film, in un modo o nell’altro, ti sorprende. Ed è in questo sovvertire le aspettative che il Cammino incontra la vita e anche il cinema
Ozzy – cucciolo coraggioso di  A. Rodriguez
Ozzy, un simpatico beagle, svolge una vita serena e idilliaca fino al giorrno in cui i suoi padroni, devono improvvisamente partire per il Giappone senza la possibilità di portarlo con loro. Profondamente addolorati, i Martins dovranno cercare una sistemazione temporanea per Ozzy e la scelta ricade su un canile extra lusso. Ma quello che all’apparenza sembra un paradiso di amore e coccole, si rivelerà ben presto una terribile prigione per cani, gestita da un proprietario malvagio. Ozzy dovrà trovare la forza di resistere e il coraggio di scappare grazie anche all’aiuto dei suoi nuovi amici a 4 zampe.
Il primo meraviglioso spettacolo di  D. Sibaldi
sarà presente in sala il regista
Quando si è bambini, non esistono differenze, pregiudizi, razze. E non esistono stranieri. Tutti si riconoscono uguali attraverso il gioco e lo spirito d’avventura. Succede proprio questo nel documentario «Il primo meraviglioso spettacolo» del regista e scrittore Davide Sibaldi, promosso da Amnesty International e Unicef e in programma il 19 febbraio al teatro dell’Affratellamento in via Gianpaolo Orsini 73 (ore 17,30 e ore 21, ingresso 7 euro, parte dell’incasso sarà devoluto alle attività di Amnesty a sostegno dei diritti umani). Basato sul libro sui rifugiati dal titolo «Giuseppe lo sputafuoco», scritto e illustrato proprio da Sibaldi, il film racconta la storia di un grande spettacolo teatrale in cui recitano 45 bambini provenienti da 11 Paesi del mondo e altri bambini italiani con disabilità psichica.
Infanzia e integrazione
Un film per bambini, ma soprattutto per gli adulti, sull’importanza del bambino interiore che regna in ciascun essere umano e che dovremmo imparare ad ascoltare. Tre le parti: prima la storia del libro sui rifugiati raccontata a cartoni animati; poi la fase di realizzazione dello spettacolo teatrale dei bambini; infine le interviste ai 35 bambini dello spettacolo e ai genitori su infanzia e integrazione. Ed è quest’ultima parte ad evidenziare i differenti approcci ai temi della diversità tra i bambini e gli adulti. «Questo spettacolo teatrale — ha spiegato il regista Sibaldi — è stato creato per unire ulteriormente i bambini delle differenti culture e capacità psichiche. E da questo spettacolo è nato il documentario, che intende affrontare l’immigrazione con un approccio diverso, concentrandosi sugli aspetti positivi e gioiosi, superando le etichette di dolore e distruzione con cui solitamente viene raffigurato questo tema».
La marcia dei pinguini: il richiamo di  L. Jacquet
Un pinguino imperatore, dopo aver covato l’uovo che conteneva suo figlio e aver poi tenuto al caldo il figlio stesso dalla nascita fino al raggiungimento di una dimensione ragguardevole, deve insegnargli a diventare adulto e avviarlo verso il viaggio in direzione del Mare Antartico dove il pulcino dovrà imparare a nuotare e a procurarsi il cibo come ogni altro membro del branco. Questo processo di iniziazione non è privo di incognite o di pericoli, dalle tempeste di neve ai crepacci ai predatori, ma papà pinguino non si ferma davanti a nulla e consegna junior al destino per cui è stato messo al mondo.
12 anni dopo il successo mondiale di La marcia dei pinguini, lo scienziato e documentarista francese Luc Jacquet torna a raccontare i più simpatici abitanti dell’Antartide attraverso un lavoro che ha richiesto mesi di osservazioni e di riprese, sopra e sotto la banchisa ghiacciata.
Il risultato è il resoconto accorato e partecipe della vita di una comunità che commuove per spirito unitario e determinazione ad affrontare insieme ogni impresa, dalle lunghe marce di migliaia di componenti alla formazione a testuggine per fare fronte ai venti gelidi del Polo.
Fin dalla prima scena La marcia dei pinguini – Il richiamo conferma l’enorme capacità pittorica di Jacquet, che non si accontenta di documentare l’esistente ma cerca di dargli un senso estetico profondo, aumentando con ralenti, primissimi piani e riprese mozzafiato il valore cinematografico della storia che racconta. Le immagini sono ben lontane dalla distanza oggettiva di certe (pur bellissime) sequenze del National Geographic perché restano impregnate della forte empatia del regista nei confronti delle creature che ritrae.
Rosso Istanbul di  F. Ozpetek
Ferzan Ozpetek traspone su grande schermo il suo romanzo autobiografico, “Rosso Istanbul”. Come nel libro, anche nel film il protagonista è un affermato regista turco che un giorno decide di tornare nella capitale turca, dov’è nato e dove ha trascorso infanzia e adolescenza. Un ritorno a casa improvviso, il suo, che gli riserverà non poche sorprese.
Dopo 8 lavori realizzati tutti in Italia, con questo film il regista torna agli esordi della sua carriera, gli anni scanditi da Il bagno turco e Harem Suare. Il cineasta mette l’accento sul tema del ritorno che – dice – “quasi sempre è legato al cambiamento”. E aggiunge: “Tutti abbiamo assistito in questi anni al cambiamento del rapporto tra Occidente e Oriente, non solo politico e sociologico ma anche emotivo che è poi l’aspetto che più mi coinvolge. Perché è cambiato, dopo tanto tempo trascorso in Italia, anche il mio rapporto con Istanbul. Con questo film, attraverso i personaggi ognuno dei quali è una parte di me, tento di ricucire quella relazione”.
Il cast è composto di attori turchi tra i quali il pubblico italiano riconoscerà Serra Yilmaz, una delle ‘muse’ del regista.
È una co-produzione italo-turca prodotta da R&C Produzioni e BKM con Rai Cinema. Produttori Tilde Corsi e Gianni Romoli.

Programmazione Cinema Italia dal 07-03 al 12-03

Jackie di  P. Larrain
Sono passati cinque giorni dalla morte di John Kennedy e la stampa bussa alla porta di Jackie per chiedere il (reso)conto. Una relazione particolareggiata dei fatti di Dallas. Sigaretta dopo sigaretta, Jackie ristabilirà la verità e stabilirà la sua storia attraverso le domande di Theodore H. White, giornalista politico di “Life”. Una favola che il suo interlocutore redige e Jackie rilegge, rettifica, manipola, perfeziona per dire al mondo di Camelot, dell’arme, la dama e il cavaliere che fecero l’impresa e la Storia fino al declino della loro buona stella.
Tra la verità e la favola c’è Jackie. Quella di Pablo Larraín, isolata in una giornata d’autunno, dopo l’assassinio del consorte e prima del ritiro dalla vita pubblica. Un intervallo spazio temporale che l’autore cileno ricostruisce in un film storico-vestimentario, cercando l’identità personale dietro quella fittizia, lungo i corridoi e le stanze della Casa Bianca, sotto la seta e i tailleurs di crêpe, di fronte ai manichini inarticolati vestiti da Chanel. E nella silhouette di un manichino, che la protagonista osserva nelle vetrine di una boutique, batte il cuore di un ritratto inflessibile che si contrappone a quello rotondo di Neruda. Diversi nel segno le due opere procedono tuttavia vigorosamente tra Storia e finzione, dominati da una sorta di insolenza che soggiace al cinema dell’autore. Da una parte la celebrazione della creazione artistica, della sua aspirazione al sublime e dei suoi compromessi con la realtà (Neruda), dall’altra il gesto espressivo che sviluppa uno stile personale e costruisce un’immagine pubblica, una condotta verbale e non verbale fatta di gesti, acconciature, abiti, gioielli e attitudini (Jackie).
Alla maniera di Neruda, il carattere finzionale di Jackie è stabilito dalle prime sequenze, l’incontro tra Jackie e il giornalista di “Life” è ripartito in piani dislocati in décor differenti (la confessione col prete al cimitero, il tour alla Casa Bianca con CBS News, etc), che indicano l’impossibilità della ricostruzione fondata sulla sola memoria. L’incertezza è il fondamento stesso di Jackie. È quanto serve di base a una straordinaria creazione di finzione che Larraín consacra alla relazione intercorrente tra corpo e abito. Perché Jackie seppe esprimere come nessun’altra i messaggi inibiti dalla parola, trasformando la Casa Bianca in una maison di stile e di glamour, appropriandosi dei media dell’epoca, radio e televisione, intuendo l’importanza di un abito nella figurazione della propria identità e del proprio ruolo sociale, veicolando la politica del consorte e soffiando un vento nuovo sulla residenza presidenziale.
Un re allo sbando di  P. Brosens
Festival del Cinema di Venezia 2016 – sezione orizzonti
Che Peter Brosens e Jessica Woodworth fossero capaci di un cinema decisamente eccentrico rispetto ai grandi baricentri della produzione contemporanea, che si parli i prodotti più commerciali o di quelli d’autore destinati ai mercati festivalieri, lo avevamo capito già quando, a Venezia, vedemmo La quinta stagione: a metà tra il fiabesco surrealismo letterario di Shane Jones e la pittura di Pieter Bruegel.
Qui non ci sono né il primo né la seconda, ma c’è ancora quello spirito anarchico e irriverente con il quale i due autori raccontano storie strampalate in grado, però, di parlare del mondo e dell’essere umano.
Un Re allo sbando (brutto titolo italiano scelto per King of the Belgians, scelto probabilmente per attirare il pubblico della commedia più tradizionale), riesce infatti a raccontare una storia dove – a partire da uno spunto nemmeno troppo fanta-politico, quello di una Vallonia che si dichiara indipendente dal Belgio fiammingo – un sovrano deve letteralmente scappare da una capitale straniera che non vorrebbe lasciarlo andare (motivi d’immagine e diplomatici) e affrontare una comica e assurda fuga attraverso i Balcani; una storia che, appunto, parla del nostro mondo, di un’Europa che ha perso il senso di sé stessa ed è lacerata dalle spinte nazionaliste, e di un uomo, un Re stanco e spento, disattivato dalle formalità del protocollo, che ritrova sé stesso e la sua libertà personale.
Nati documentaristi, Brosens e Woodworth scelgono per questo film di finzione la strada del mockumentary (tutto è raccontato attraverso l’occhio della videocamera del regista inglese che la Regina aveva assunto per un documentario istituzionale sul Re, Nicolas III) e della commedia strampalata, spolverando il tutto con un grottesco vagamente demenziale, trovando così una curiosa ma giusta distanza per divertire (prima di tutto, ma senza negarsi un pizzico di amarezza a fin di bene) e raccontare scena e retroscena dei suoi personaggi: oltre al Re – un bravissimo Peter Van den Begin, maschera tutt’altro che monocorde – ci sono il suo ligio addetto al protocollo, una giovane e agguerrita addetta stampa, un valletto personale e ovviamente il regista del documentario.
Tutti, alle prese con l’imprevedibile e con una fuga che li riporterà a contatto diretto con il vero cuore dell’Europa e del suo popolo (e anche del loro, di cuore), perderanno progressivamente maschere e abiti, avvicinandosi in maniera quasi pericolosa a un disvelamento completo di sé, per poi (sapere di dover) reindossare tutto ma con nuova consapevolezza.
Più di tutti, ovviamente il Re. L’unico, non a caso, a metterli letteralmente nudo per fare il bagno nel mezzo del Mediterraneo che stanno tentando di attraversare in maniera improvvisata e rocambolesca.
Perché è il protagonista del film, certo. Perché è lui il personaggio cui era destinato il più evidente e necessario arco di trasformazione. Perché era lui a dover riprendere in mano il controllo della sua vita: delle sue parole, come raccontato dal ricorrente e costante tentativo di scrivere un discorso che riunisca nuovamente il suo Stato e il suo popolo.
Ma anche perché, semplicemente, è il Re. L’uomo simbolo di un’istituzione considerata sorpassata e antimoderna, l’uomo che, proverbialmente, è solo al comando (ma privo oramai di potere e ruolo) e la cui solitudine esistenziale è stata esplorata così spesso da cinema e letteratura.
Si è perso il Re, viva il Re.
Ozzy – cucciolo coraggioso di  A. Rodriguez
Ozzy, un simpatico beagle, svolge una vita serena e idilliaca fino al giorrno in cui i suoi padroni, devono improvvisamente partire per il Giappone senza la possibilità di portarlo con loro. Profondamente addolorati, i Martins dovranno cercare una sistemazione temporanea per Ozzy e la scelta ricade su un canile extra lusso. Ma quello che all’apparenza sembra un paradiso di amore e coccole, si rivelerà ben presto una terribile prigione per cani, gestita da un proprietario malvagio. Ozzy dovrà trovare la forza di resistere e il coraggio di scappare grazie anche all’aiuto dei suoi nuovi amici a 4 zampe.
Moonlight di  B. Jenkins
Oscar 2017 – miglior film – miglior sceneggiatura non originale –
    miglior attore non protagonista
Da quando, a partire dall’inizio del nuovo millennio, il cinema afroamericano ha cominciato a presidiare in pianta stabile la programmazione del circuito ufficiale, la preoccupazione dei suoi esponenti più importanti e celebrati è stata quella di preservarne il vitalismo che in larga parte coincideva con l’orgoglio di razza e i richiami alle proprie origini presenti nei lavori di registi come Spike Lee, John Singleton e Mario Van Peebles, che, seppur con risultati tra loro non paragonabili, possiamo oggi considerare i precursori di questo movimento. Tutt’altro che scontate, le preoccupazioni del regista di “Fai la cosa giusta” si riferivano soprattutto al rischio di sudditanza derivata dalla volontà di farsi accettare dall’establishment come in parte è avvenuto con il fiorire di un filone più commerciale perfettamente sovrapponibile alla produzioni di genere (soprattutto commedie) hollywoodiane. La Festa del cinema di Roma prova a dare un contributo alla discussione animandola con la presenza di due titoli come “The Birth of the Nation” di Nate Parker e soprattutto di “Moonlight” diretto da Barry Jenkins, destinati ad animare il dibattito. E se il film di Parker, di cui parliamo in altra sede, si inserisce nella maniera più classica nel filone dei titoli che rileggono la storia per denunciare gli orrori della schiavitù, quello di Jenkins ha le carte in regola per figurare tra i titoli capaci di segnare uno scarto rispetto a ciò che l’ha preceduto.
La trama, divisa in tre atti, ognuno dei quali corrispondenti a una diversa fase della vita del protagonista (infanzia, adolescenza ed età adulta), ci propone uno degli scenari più tipici rappresentato dal ghetto nero (di Miami) in cui, tra violenza, emarginazione e degrado sociale, vive il giovane Chiron, che trova conforto nell’amicizia con il boss del quartiere e la sua compagna, presso i quali si rifugia per supplire all’assenza della madre tossicodipendente e per trovare un’alternativa al bullismo dei compagni di scuola.
Dalla tradizione non si discosta neanche l’iconografia della fauna sociale regolata da una legge della strada uguale a quella che faceva da sfondo alle storie di “Boys on the Hood” e “Training Days”, solo per citare due dei lungometraggi più emblematici, né quella urbanistica, dominata dal degrado e dalla decadente fatiscenza del quartiere natale. Ad essere diversi, però, sono la sensibilità del regista e il suo punto di vista sulle vite dei personaggi. Jenkins, infatti, non rinuncia ai temi della droga, della violenza e della discriminazione sociale, ma li filtra attraverso un intimismo che serve alla storia per mettere in scena una formazione esistenziale segnata dalla diversità sessuale, che Chiron scoprirà innamorandosi dell’amico del cuore. In questa maniera il modello del gangsta movie viene svuotato degli stilemi tipici del genere per essere riempito da una poetica rivolta a trasfigurare i turbamenti dell’anima e le ragioni del cuore; con la dicotomia tra realtà e apparenza enfatizzata dalla trasformazione fisica e caratteriale di Chiron, uscito dal carcere trasformato nel corpo e nello spirito per difendersi dal peso delle antiche fragilità.
Tratto da “Moonlight Black Boys Look Blue”, opera teatrale di Tarell Alvin McCraney, il film di Jenkins tradisce la sua matrice con immagini che non si limitano ad accompagnare la narrazione ma che si incaricano di inventarla, quando la vicenda riflette sulla condizione umana del protagonista e sulle molte rinascite (familiare, sessuale, sociale) della sua esistenza, ogni volta associate alla presenza dell’acqua, elemento psicanalitico destinato a fungere da fonte battesimale nella sequenza del bagno con Juan, che suggella la responsabilità genitoriale assunta dall’uomo nei confronti del suo piccolo amico..

I VENERDI’ A TEATRO

I venerdì a teatro” è la rassegna del teatro dialettale e non con cui il Cinema Italia vuole valorizzare la forza della cultura che viene dal territorio e dal volontariato che in esso opera.
La rassegna è composta di 4 serate e si configura come evento di richiamo per gli amanti del teatro e della commedia; ogni venerdì a partire dal 17 marzo si aprono le porte al divertimento, all’energia, alla passione e all’impegno delle compagnie teatrali del territorio che si danno appuntamento al Cinema Italia.
La rassegna coinvolge compagnie teatrali del territorio che portano in scena loro commedie su testi esistenti ovvero da loro creati o ri-adattati. L’allestimento delle scene e le interpretazioni sono frutto del volontariato spontaneo.
Questa impostazione (la volontà di far conoscere la cultura che nasce spontaneamente dal territorio) ci da la possibilità di far vivere questa realtà ad un pubblico più ampio che probabilmente non frequenta il teatro.
E’ il momento ideale per scegliere il teatro, che è per definizione “stabile”, ma è anche un’ode all’instabilità preziosa, quella di chi non si stanca mai di andare e di viverlo.

Programmazione Cinema Italia dal 28-02 al 05-03

A United Kingdom di  A. Asante
1947. L’erede al trono del Botswana Seretse Khama sta terminando gli studi di giurisprudenza a Londra quando si imbatte nell’impiegata inglese Ruth Williams. È amore a prima vista, e poiché Seretse deve tornare in Africa per assumere il ruolo di re, i due decidono di sposarsi. Ma il resto del mondo non sembra pronto per quel matrimonio fra un capo tribù africano e una suddita dell’impero coloniale inglese.
Amma Asante, ex attrice, sceneggiatrice e regista inglese di origini ghanesi con un interesse per le relazioni fra coppie miste (la sua regia precedente, La ragazza del dipinto, narrava fra le altre cose l’amore fra una donna nera e un uomo bianco), segue la vicenda di due personaggi realmente esistiti che con la loro determinazione a superare i pregiudizi hanno esercitato un forte impatto sull’opinione pubblica mondiale, tanto da diventare un esempio di armonia razziale elogiato da Nelson Mandela.
Il film funziona soprattutto quando le vicende private di Seretse e Ruth fanno da cartina di tornasole al clima politico della loro epoca e da argine al contagio dell’apartheid che proprio allora si stava radicando in Sudafrica.
Il cliente di  A. Farhadi
oscar 2017 miglior film straniero
Emad e Rana sono due coniugi costretti ad abbandonare il proprio appartamento a causa di un cedimento strutturale dell’edificio. Si trovano così a dover cercare una nuova abitazione e vengono aiutati nella ricerca da un collega della compagnia teatrale in cui i due recitano da protagonisti di “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller. La nuova casa era abitata da una donna di non buona reputazione e un giorno Rana, essendo sola, apre la porta (convinta che si tratti del marito) a uno dei clienti della donna il quale la aggredisce. Da quel momento per Emad inizia una ricerca dell’uomo in cui non vuole coinvolgere la polizia.
Asghar Farhadi torna a Teheran per proporre una vicenda in cui azione teatrale e quotidianità finiscono con il ritrovarsi in una specularità significante. Il regista fa sì che sin dall’inizio questa dimensione venga sottolineata facendo diretto riferimento alla messa in scena. Ci ricorda cioè la nostra posizione di spettatori invitandoci a leggere la duplice finzione (teatrale e cinematografica) e ad individuarne gli scambi.
Ozzy – cucciolo coraggioso di  A. Rodriguez
Ozzy, un simpatico beagle, svolge una vita serena e idilliaca fino al giorrno in cui i suoi padroni, devono improvvisamente partire per il Giappone senza la possibilità di portarlo con loro. Profondamente addolorati, i Martins dovranno cercare una sistemazione temporanea per Ozzy e la scelta ricade su un canile extra lusso. Ma quello che all’apparenza sembra un paradiso di amore e coccole, si rivelerà ben presto una terribile prigione per cani, gestita da un proprietario malvagio. Ozzy dovrà trovare la forza di resistere e il coraggio di scappare grazie anche all’aiuto dei suoi nuovi amici a 4 zampe.
Jackie di  P. Larrain
Sono passati cinque giorni dalla morte di John Kennedy e la stampa bussa alla porta di Jackie per chiedere il (reso)conto. Una relazione particolareggiata dei fatti di Dallas. Sigaretta dopo sigaretta, Jackie ristabilirà la verità e stabilirà la sua storia attraverso le domande di Theodore H. White, giornalista politico di “Life”. Una favola che il suo interlocutore redige e Jackie rilegge, rettifica, manipola, perfeziona per dire al mondo di Camelot, dell’arme, la dama e il cavaliere che fecero l’impresa e la Storia fino al declino della loro buona stella.
Tra la verità e la favola c’è Jackie. Quella di Pablo Larraín, isolata in una giornata d’autunno, dopo l’assassinio del consorte e prima del ritiro dalla vita pubblica. Un intervallo spazio temporale che l’autore cileno ricostruisce in un film storico-vestimentario, cercando l’identità personale dietro quella fittizia, lungo i corridoi e le stanze della Casa Bianca, sotto la seta e i tailleurs di crêpe, di fronte ai manichini inarticolati vestiti da Chanel. E nella silhouette di un manichino, che la protagonista osserva nelle vetrine di una boutique, batte il cuore di un ritratto inflessibile che si contrappone a quello rotondo di Neruda. Diversi nel segno le due opere procedono tuttavia vigorosamente tra Storia e finzione, dominati da una sorta di insolenza che soggiace al cinema dell’autore. Da una parte la celebrazione della creazione artistica, della sua aspirazione al sublime e dei suoi compromessi con la realtà (Neruda), dall’altra il gesto espressivo che sviluppa uno stile personale e costruisce un’immagine pubblica, una condotta verbale e non verbale fatta di gesti, acconciature, abiti, gioielli e attitudini (Jackie).
Alla maniera di Neruda, il carattere finzionale di Jackie è stabilito dalle prime sequenze, l’incontro tra Jackie e il giornalista di “Life” è ripartito in piani dislocati in décor differenti (la confessione col prete al cimitero, il tour alla Casa Bianca con CBS News, etc), che indicano l’impossibilità della ricostruzione fondata sulla sola memoria. L’incertezza è il fondamento stesso di Jackie. È quanto serve di base a una straordinaria creazione di finzione che Larraín consacra alla relazione intercorrente tra corpo e abito. Perché Jackie seppe esprimere come nessun’altra i messaggi inibiti dalla parola, trasformando la Casa Bianca in una maison di stile e di glamour, appropriandosi dei media dell’epoca, radio e televisione, intuendo l’importanza di un abito nella figurazione della propria identità e del proprio ruolo sociale, veicolando la politica del consorte e soffiando un vento nuovo sulla residenza presidenziale.

Programmazione Cinema Italia dal 21-02 al 26-02

150 milligrammi di  E. Bercot
Una pneumologa dell’ospedale universitario di Brest scopre un legame fra l’assunzione del farmaco Mediator e il decesso di alcuni suoi pazienti. Dopo aver sottoposto la possibilità di una correlazione di causa-effetto al gruppo di ricerca farmacologico della struttura, decide insieme a loro di chiedere all’Agenzia Francese del Farmaco di ritirarlo dal mercato, dove è venduto da una trentina d’anni. Ha inizio una guerra sproporzionata fra il piccolo team bretone, il Ministero della Salute e soprattutto il colosso farmaceutico che lo commercializza. Film ispirato ai fatti vissuti dalla dottoressa Irene Frachon tra il 2009 e 2010.
Emmanuelle Bercot voleva fare il medico. Lo ha rivelato in un’intervista confessando la sua passione, derivata dal padre chirurgo, di ospedali, sale operatorie e malattie. È finita per fare altro, ma pur da regista non si è fatta mancare la soddisfazione di osservare le gesta di una dottoressa assai determinata e combattiva. Affascinata più dal carattere bizzarro che non dalla professionalità della Frachon, ha messo in piedi un progetto ambizioso a cui ha lavorato per diversi anni e che tocca più il genere investigativo / giudiziario dentro al cinema di denuncia che non il medical drama.
Con un’ispirazione notevole, la Bercot non ha perso il senso del necessario equilibrio per affrontare non solo una delicatissima vicenda reale con protagonisti viventi, ma anche una tensione emotiva che altrove l’aveva fatta “sbandare”.
La bella addormentata (Bolshoi ballet)
Il balletto russo per il sonno di Aurora
Al compimento del suo sedicesimo compleanno, la maledizione della strega cattiva Carabosse fa cadere la bella principessa Aurora in un sonno lungo 100 anni. Solo il bacio di un principe potrà risvegliarla… Nella cornice della più magica delle favole, i ballerini del Bolshoi ci conducono in un viaggio da sogno con fate, regni incantati, giovani principesse e affascinanti principi, nel più classico stile del balletto. La sontuosa messa in scena del Bolshoi, con i suoi vestiti pregiati e le ricche scenografie, dà vita alla classica favola di Perrault come nessun altro Davvero da vedere!
Ballerina di  E. Summer
Il nuovo film d’animazione diretto da  Eric Summer e  Éric Warin sarà ambientato nella Francia del 1884. Félice è una giovane adolescente piena di sogni e ambizioni il cui più grande desiderio è quello di poter danzare al Teatro Dell’Opera di Parigi. Tuttavia non ha una famiglia che la sostenga alle spalle ed è costretta a vivere in un orfanotrofio.
Un giorno lei, insieme al suo amico Corentin, decide di pianificare una fuga per poter andare a Parigi, nella speranza di poter finalmente realizzare i propri sogni.
 
Il cliente di  A. Farhadi
candidato agli oscar 2017 miglior film straniero
Emad e Rana sono due coniugi costretti ad abbandonare il proprio appartamento a causa di un cedimento strutturale dell’edificio. Si trovano così a dover cercare una nuova abitazione e vengono aiutati nella ricerca da un collega della compagnia teatrale in cui i due recitano da protagonisti di “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller. La nuova casa era abitata da una donna di non buona reputazione e un giorno Rana, essendo sola, apre la porta (convinta che si tratti del marito) a uno dei clienti della donna il quale la aggredisce. Da quel momento per Emad inizia una ricerca dell’uomo in cui non vuole coinvolgere la polizia.
Asghar Farhadi torna a Teheran per proporre una vicenda in cui azione teatrale e quotidianità finiscono con il ritrovarsi in una specularità significante. Il regista fa sì che sin dall’inizio questa dimensione venga sottolineata facendo diretto riferimento alla messa in scena. Ci ricorda cioè la nostra posizione di spettatori invitandoci a leggere la duplice finzione (teatrale e cinematografica) e ad individuarne gli scambi..
 
A United Kingdom di  A. Asante
1947. L’erede al trono del Botswana Seretse Khama sta terminando gli studi di giurisprudenza a Londra quando si imbatte nell’impiegata inglese Ruth Williams. È amore a prima vista, e poiché Seretse deve tornare in Africa per assumere il ruolo di re, i due decidono di sposarsi. Ma il resto del mondo non sembra pronto per quel matrimonio fra un capo tribù africano e una suddita dell’impero coloniale inglese.
Amma Asante, ex attrice, sceneggiatrice e regista inglese di origini ghanesi con un interesse per le relazioni fra coppie miste (la sua regia precedente, La ragazza del dipinto, narrava fra le altre cose l’amore fra una donna nera e un uomo bianco), segue la vicenda di due personaggi realmente esistiti che con la loro determinazione a superare i pregiudizi hanno esercitato un forte impatto sull’opinione pubblica mondiale, tanto da diventare un esempio di armonia razziale elogiato da Nelson Mandela.
Il film funziona soprattutto quando le vicende private di Seretse e Ruth fanno da cartina di tornasole al clima politico della loro epoca e da argine al contagio dell’apartheid che proprio allora si stava radicando in Sudafrica.

Programmazione Cinema Italia dal 14-02 al 19-02

Il disprezzo di  JL. Godard
versione originale sottotitolata in italiano
Lo scrittore e sceneggiatore Paul Javal (Michel Piccoli) viene chiamato da un potente produttore americano, Prokhosh, (Jack Palance), a riscrivere il copione di un film tratto dall’Odissea che al momento manca di appeal commerciale. La moglie di Paul, Camille (Brigitte Bardot), inizia a disprezzare il marito poiché, quest’ultimo, tollera e favorisce le avances che Prokosh inizia a farle fin dal loro primo incontro.
L’omonimo romanzo di Alberto Moravia è solo un pretesto, narrativo e produttivo, per realizzare una pellicola che amplia decisamente il raggio d’azione rispetto alle pagine del testo di partenza. Jean-Luc Godard compie una spietata e cinica analisi delle dinamiche di coppia, segnate da quell’incomunicabilità che tornerà a trattare nel successivo Il bandito delle undici (1965). Il regista costruisce un film, in parte, autobiografico e incentrato sull’opposizione tra vera arte (Omero) e prodotto commerciale (la pellicola hollywoodiana): il complesso rapporto con produttori attenti soltanto a dinamiche commerciali è un argomento che tocca Godard da vicino, e che avrà ancora un ruolo da protagonista nelle sue pellicole degli anni Ottanta, spesso incentrate, come Il disprezzo, su un film da farsi. Attraverso una confezione impeccabile, fatta di sinuosi movimenti di macchina e di ambientazioni suggestive (Villa Malaparte, a Capri), l’autore dà vita a una complessa riflessione sulla maestosità dell’arte classica (l’insistenza sulle statue) che oggi potrebbe essere proseguita dal cinema, rappresentato dall’amato Fritz Lang che veste i panni del regista dell’ipotetica Odissea. In fondo, Il disprezzo è soprattutto un grande omaggio alla bellezza della settima arte, simboleggiata anche dal fascino di una Brigitte Bardot ai massimi storici. Le sceneggiature si cambiano, i personaggi si modificano, persino la “diva” può morire, ma il cinema prosegue il suo cammino e non può fermarsi, come dimostra il magnifico finale. Camei di Raoul Coutard (direttore della fotografia) e Jean-Luc Godard, che appare davanti alla macchina da presa come aiuto regista. Ormai leggendari i tagli voluti da Carlo Ponti per l’edizione italiana, che hanno maciullato una delle pellicole più raffinate ed eleganti della prima metà degli anni Sessanta: il film venne rimontato, stampato con colori diversi da quelli voluti da Godard, modificato nella colonna sonora e accorciato di ben venti minuti. Come se non bastasse, nell’edizione originale ogni personaggio parla nella sua lingua, mentre nella versione (assassina!) nostrana ognuno comunica, ovviamente, in italiano.

Io, Claude Monet di  P. Grasbky

La grande arte al cinema!
Tremila lettere di Claude Monet. È a partire da questo immenso patrimonio che si snoda Io, Claude Monet, il nuovo docu-film di Phil Grabsky che arriva al cinema solo il 14 e 15 febbraio.
Proprio a partire dagli scritti di Monet (Parigi, 1840 – Giverny, 1926), accostati alle straordinarie opere conservate nei più importanti musei del mondo, il film rivela la tumultuosa vita interiore del pittore di Giverny, tra momenti di intensa depressione e giorni di assoluta euforia creativa, offrendone così un ritratto complesso e commuovente. Attraverso più di cento dipinti filmati in alta definizione lo spettatore potrà conoscere la vita emotiva e creativa del pittore che con il suo Impression. Soleil levant, esposto nell’aprile del 1874 nello studio del fotografo Nadar, fece parlare il critico Louis Leroy della prima “esposizione degli impressionisti”, dando involontariamente vita al termine che avrebbe segnato buona parte della storia dell’arte europea di fine Ottocento.
Riportate alla vita dall’acclamato attore britannico Henry Goodman, le lettere di Monet narrano infatti il percorso dell’artista da enfant prodige e appassionato caricaturista a maestro indiscusso di fama internazionale e registrano con attenzione gli incontri più importanti – come quelli col pittore Eugène Boudin e col primo ministro e amico Georges Clemenceau, che nel 1899 gli scrive “Voi ritagliate dei pezzetti di cielo e li gettate in faccia alla gente. Niente sarebbe così stupido come dirvi grazie: non si ringrazia un raggio di sole”.
 
Nebbia in agosto di  K. Wessel
Germania del Sud, inizio anni Quaranta. Ernst è un ragazzino orfano di madre, molto intelligente ma disadattato. Le case e i riformatori nei quali ha vissuto l’hanno giudicato “ineducabile”, ed è stato confinato in un’unità psichiatrica a causa della sua natura ribelle. Qui però si accorge che alcuni internati vengono uccisi sotto la supervisione del dottor Veithausen. Ernst decide quindi di opporre resistenza, aiutando gli altri pazienti, e pianificando una fuga insieme a Nandl, il suo primo amore. Ma Ernst è in realtà in grave pericolo, perché è la dirigenza stessa della clinica a decidere se i bambini debbano vivere o morire…
Giffoni film festival 2016
Miglior Film – 2o Classificato
Premio CGS (Cinecircoli Giovanili Socioculturali) “Percorsi Creativi 2016”
motivazione: “perché il film, ambientato come altri nella Germania nazista, approfondisce un aspetto poco conosciuto, tuttora controverso: quello dei programmi di eutanasia applicati anche su minori e disabili. Ispirato ad una storia vera, il prodotto riesce a sottolineare l’importanza universale del rispetto della vita altrui e ad evidenziare la pericolosità delle ideologie disumanizzanti che intendono manipolarla su basi selettive. La sceneggiatura non si rifugia nel facile schematismo che separa buoni e cattivi, ma mette in luce la fragilità umana, da sempre vittima della “Banalità del Male”. I significati più profondi vengono veicolati soprattutto da una regia che valorizza l’interpretazione e l’espressività dei giovani attori, anche attraverso un uso calibrato di musiche evocative e dialoghi essenziali. Infine, grazie al netto contrasto tra i toni cromatici caldi e freddi degli spazi esterni ed interni, emerge un clima di tragedia che, nonostante tutto, apre uno spiraglio alla speranza.”
150 milligrammi di  E. Bercot
Una pneumologa dell’ospedale universitario di Brest scopre un legame fra l’assunzione del farmaco Mediator e il decesso di alcuni suoi pazienti. Dopo aver sottoposto la possibilità di una correlazione di causa-effetto al gruppo di ricerca farmacologico della struttura, decide insieme a loro di chiedere all’Agenzia Francese del Farmaco di ritirarlo dal mercato, dove è venduto da una trentina d’anni. Ha inizio una guerra sproporzionata fra il piccolo team bretone, il Ministero della Salute e soprattutto il colosso farmaceutico che lo commercializza. Film ispirato ai fatti vissuti dalla dottoressa Irene Frachon tra il 2009 e 2010.
Emmanuelle Bercot voleva fare il medico. Lo ha rivelato in un’intervista confessando la sua passione, derivata dal padre chirurgo, di ospedali, sale operatorie e malattie. È finita per fare altro, ma pur da regista non si è fatta mancare la soddisfazione di osservare le gesta di una dottoressa assai determinata e combattiva. Affascinata più dal carattere bizzarro che non dalla professionalità della Frachon, ha messo in piedi un progetto ambizioso a cui ha lavorato per diversi anni e che tocca più il genere investigativo / giudiziario dentro al cinema di denuncia che non il medical drama.
Con un’ispirazione notevole, la Bercot non ha perso il senso del necessario equilibrio per affrontare non solo una delicatissima vicenda reale con protagonisti viventi, ma anche una tensione emotiva che altrove l’aveva fatta “sbandare”.
Ballerina di  E. Summer
Il nuovo film d’animazione diretto da  Eric Summer e  Éric Warin sarà ambientato nella Francia del 1884. Félice è una giovane adolescente piena di sogni e ambizioni il cui più grande desiderio è quello di poter danzare al Teatro Dell’Opera di Parigi. Tuttavia non ha una famiglia che la sostenga alle spalle ed è costretta a vivere in un orfanotrofio.
Un giorno lei, insieme al suo amico Corentin, decide di pianificare una fuga per poter andare a Parigi, nella speranza di poter finalmente realizzare i propri sogni.